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Vi racconto Peppino Turani, cavallo di razza del giornalismo economico-finanziario

"Peppino Turani era un giornalista di rara intelligenza, un arguto conversatore, veloce a scrivere. Ha cambiato testate come noi cambiamo camicie. Ha continuato a scavare sotto le notizie, a non credere mai ai comunicati ufficiali. Ci conoscevamo da 46 anni, abbiamo condiviso tante avventure professionali". Il ricordo di Leonardo Coen

È morto Peppino Turani. Faccio fatica a elaborare la notizia. Era un giornalista di rara intelligenza e un arguto conversatore. Ci conoscevamo da 46 anni, abbiamo lavorato insieme e condiviso tante avventure professionali.

Se il celebre saggio “Razza Padrona” ebbe tanto successo (un capostipite del genere) non fu solo perché oltre alla sua c’era anche la firma di Eugenio Scalfari, ma perché era riuscito ad imporre il suo stile brillante e mai verboso, senza tanti fronzoli.

È stato un gran cacciatore di notizie economiche e finanziaria, riusciva ad accalappiare confidenze esclusive, amava la vita e voleva godersi le cose belle che offriva, quasi avesse paura di perderle, non dimenticò mai di aver dovuto sgobbare da ragazzo perché non era figlio di papà, anzi.

Aveva 79 anni, era di Voghera. Come Arbasino. Come Valentino.

Si era laureato alla Bocconi, nel 1970 entrò all’Espresso per occuparsi della redazione di economia e finanza, divenendone il capo. Sei anni dopo arriva alla redazione milanese di Repubblica, di cui sarà il responsabile. In realtà, per ricomporre il sodalizio con Scalfari, il fondatore.

Nel frattempo curò la “Lettera Finanziaria”, una newsletter molto apprezzata dall’ambiente di Piazza Affari. Un mondo pieno di insidie.

E di trappole. Ma Peppino è anima irrequieta, la sua carriera è vorticosa, cambia testate come noi cambiamo camicie.

Piace per la sua verve e per il suo fiuto: capisce sempre che direzione piglia la nostra società sempre più succube dei giochi di potere economici e politici.

È un uomo di grande disincanto, e sa leggere in controluce le dinamiche degli eventi.

Sa che l’Italietta cammina in bilico su un sottile filo di lana, e se cade sa che verrebbe ingoiata dalla nuova e più famelica razza padrona.

Non crede alle sirene populiste della decrescita felice perché la decrescita è solo infelice, dice, figuriamoci in un Paese come l’Italia che è come una vecchia auto cigolante, sgangherata tale e quale la burocrazia… ma il mestiere di ficcanaso delle faccende politiche e finanziarie lo mette nel mirino dei magistrati, cosī suo malgrado finisce invischiato nell’inchiesta Penne Pulite.

È il 1994, lo accusano di aver messo la sua al servizio di Ferruzzi e di una finanziaria milanese.

Le accuse cadono, erano frutto di dicerie, di sospetti, forse di invidie. Se vuoi sapere di più, ci spiegava, devi frequentare certi personaggi dell’industria e della finanza, basta non farsi corrompere. Ma lo scandalo l’aveva ferito. Poi, si è ripreso con forza e tenacia.

Turani ha continuato a scavare sotto le notizie, a decifrare gli eventi, a non credere mai ai comunicati ufficiali.

Era veloce a scrivere, e sapeva raccontare l’economia come un giallista.

Negli ultimi anni aveva comprato una bella casa a Tassara, in Val Tidone, la chiamava il mio bosco, non lontano dal castello dell’amico ed ex editore Dalai.

Caro Peppino, non importa quanto duri la vita degli uomini, sarà sempre un tempo troppo breve.

Il tempo è una feroce implacabile livella.

Maledizione.

(post pubblicato da Coen su Facebook)

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