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Credit Suisse

Vi racconto le americanate suicide del Credit Suisse

Il ruolo dell'America e il caso Credit Suisse. Fatti, legami e analisi. L’approfondimento di Teo Dalaveracuras

 

Sul Credit Suisse, pragmaticamente, ’è anche un’altra storia che deve essere tenuta presente, considerato che in ultima analisi quella applicata dai clan dirigenti del Credit Suisse non è che l’etica opportunistica e autoreferenziale condivisa del Ceo capitalism – (per usare un concetto caro a Riccardo Ruggeri la cui aderenza alla realtà è quotidianamente confermata dai fatti) e, in ultima analisi, di qualsiasi corpo burocratico.

È la storia della battaglia condotta e rapidamente vinta dagli Stati Uniti per costringere la Svizzera a privarsi del proprio principale asset di marketing finanziario, costituito dal segreto bancario, che ha in qualche misura costretto le grandi banche a buttarsi nell’avventura dell’investment banking. È fuor di dubbio, infatti, che la “banca svizzera” del Credit Suisse ancora oggi sia un’azienda largamente redditizia mentre gli affari oltre atlantico si sono ripetutamente trasformati in bagni di sangue per gli azionisti. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che la stessa Ubs, che oggi “salva” Credit Suisse, quindici anni fa fosse stata salvata dal denaro pubblico (all’altezza di 40 miliardi di franchi se non ricordo male) per impedirle di affondare nel pantano dei subprime che grandi banche americane avevano tempestivamente scaricato sulle loro consorelle europee.

Ragionevole considerare quindi la subalternità all’egemonia Usa (declinata sopra il tavolo promuovendo una legislazione internazionale ispirata alla trasparenza e sotto il tavolo con procedimenti penali legati all’enforcement della normativa fiscale americana che, come quasi tutto in America, è sempre aperto alla trattativa, purché miliardaria) tra i fattori della caduta della banca eponima della Confederazione.

Del resto, questo capitolo della storia non è finito. Qualche settimana fa Scott Miller, l’ambasciatore Usa a Berna, ha rilasciato alla Neue Zürcher Zeitung una lunga intervista nella quale ha invitato la Svizzera a darsi da fare per congelare ben più dei 7 miliardi sinora sequestrati a presunti oligarchi e/o prestanomi di Vladimir Putin, parlando della possibilità di arrivare a 50 – 100 miliardi, ribadendo inoltre l’esortazione a unire la Svizzera alla task force internazionale che sta studiando il modo di convertire i sequestri in confische così da destinare i capitali espropriati alla ricostruzione dell’Ucraina (una richiesta che se accolta farebbe perdere alla Confederazione le ultime sembianze della neutralità su cui ha costruito le proprie fortune negli ultimi duecento anni). Tutto questo, e molto altro, “suggerito” da Miller con un tono più da proconsole che da ambasciatore.

Gli Usa – mai superfluo ribadirlo in un Paese come l’Italia dove la “accusa” di “antiamericanismo” costantemente aleggia in assenza di argomenti migliori – proiettano la loro potenza dove e come è loro possibile farlo, e questo è il dovere dei dirigenti americani, è ciò per cui sono pagati. Il fatto è che questa proiezione di potenza ha conseguenze diverse là dove esistono le condizioni per parlare di sovranità (per esempio in Turchia) rispetto a dove queste condizioni non esistono, e dobbiamo serenamente riconoscere che in Europa queste condizioni non esistono. Questo per dire che non interessa “giudicare” la pressione esercitata – in questo caso dall’ambasciatore – ma va tenuta presente perché è una variabile molto significativa per capire in che contesto si colloca l’odierno salvataggio del Credit Suisse.

La Svizzera sta in Europa, ma a differenza dei Paesi dell’Unione Europea che hanno lasciato migrare gran parte del potere politico in una struttura amministrativa come la Commissione europea (il cui vertice, signora Ursula von der Leyen, è appena rientrato da un pellegrinaggio alla Casa Bianca) è ancora un Paese con almeno un pezzo di spina dorsale democratica: per esempio con una stampa che conserva una certa dignità professionale. Sicché, se pure assai improbabile, non è impossibile che la Confederazione possa riservare sorprese. Certo, perché vi siano sorprese autentiche, bisognerebbe che l’ira tranquilla del popolo e di una parte della élite si trasformasse in “movimento collettivo”, ma in questi processi conta il sistema dei mass media. Ho notato sopra che la stampa elvetica è provvista di dignità, ma questo non significa che operi nel vuoto. Senza contare che l’economia svizzera vive di esportazioni in un mondo che – sia pure nel nome della liberaldemocrazia – ha decisamente svoltato verso il protezionismo.

Quale che sia l’elaborazione del lutto per la scomparsa del Credit Suisse, immaginare un futuro di crescente prosperità per l’ecosistema bancario della Svizzera non è facilissimo.

(Seconda e ultima parte; la prima parte si può leggere qui)

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