Dal 7 agosto Donald Trump con un ennesimo ordine esecutivo ha innescato una rivoluzione nella gestione del risparmio pensionistico. Una enorme massa di denaro pari a 12.200 miliardi di dollari che costituiscono i risparmi accumulati da 90 milioni di lavoratori americani durante la loro carriera lavorativa, la cui gestione costituisce una lucrosa attività per giganti come BlackRock e Vanguard.
Si tratta dei cosiddetti 401(k), piani pensionistici a contribuzione definita offerti da molti datori di lavoro. I lavoratori accantonano in un conto d’investimento una parte del loro salario con vantaggi fiscali (sono deducibili dal reddito imponibile), con la possibilità di versamenti aggiuntivi anche da parte del datore di lavoro. Questi ultimi affidano in gestione fiduciaria tali conti ai più grandi operatori del settore (BlackRock, Vanguard, ecc…). Già oggi una parte consistente di quei fondi sono investiti in azioni e obbligazioni quotate (con punte del 88% per i soggetti più giovani) ma l’ordine esecutivo di Donald Trump consentirà ai gestori di investire con molta più facilità in fondi di private equity, un settore che oggi raccoglie 8.000 miliardi di risparmi investendo direttamente nel capitale di circa 11.500 imprese Usa. La novità è che questi investimenti sono poco liquidi, non quotati, poco trasparenti e, soprattutto, hanno oneri di gestione molto elevati (2% del gestito e 20% dei profitti), giustificati dalla (non sempre) elevata redditività. Insomma non proprio il massimo per un piano pensionistico.
Infatti, è da almeno 20 anni che negli Usa è fiorente il mercato delle azioni legali contro i gestori e i datori di lavoro, colpevoli di investimenti incauti. Centinaia di milioni di risarcimenti danni a carico delle imprese e dei gestori che hanno violato il patto fiduciario e hanno violato le stringenti regole prudenziali che governano gli impieghi dei risparmi dei futuri pensionati. L’intervento di Trump effettivamente semplifica la possibilità di investire in fondi di private equity perché dovrebbe mettere al riparo i gestori da attacchi legali, ma questo avverrà solo a condizione che essi rispettino rigorosi criteri nella selezione degli investimenti, inclusa la proporzione tra commissioni pagate e ritorni ricevute.
Il settore del private equity è oggi diventato un importante canale per la capitalizzazione delle imprese che non ricorrono più ai mercati regolamentati, che trovano costosi e appesantiti in termini di adempimenti burocratici. Oggi negli Usa ci sono più di 700 società non quotate (i cosiddetti “unicorni”) che hanno raggiunto almeno 1 miliardo di capitalizzazione. In questo universo spiccano giganti come SpaceX (400 miliardi) e OpenAI (500 miliardi). I fondi di private equity raccolgono denaro da investitori istituzionali e grandi ricchezze private e lo investono direttamente in questi campioni della tecnologia.
La sfida ora è consentire ai gestori dei conti 401(k) e quindi in definitiva al risparmio al dettaglio di accedere a questa opportunità di investimento che è sideralmente lontana dalle abituali scelte fatte finora da quei gestori. Se Trump riuscirà in questa rivoluzione senza danneggiare gli interessi dei lavoratori e aumentando i rendimenti dei loro piani pensionistici, il 7 agosto segnerà una svolta epocale nella storia dell’industria del risparmio Usa.
Allo stesso tempo, in Europa, stiamo assistendo a una preoccupante manovra della Commissione che ha messo nel mirino i risparmi degli italiani e dei cittadini della Ue. Ursula von der Leyen, a qualsiasi costo, vorrebbe aumentare la quota di risparmi investiti direttamente in azioni e, a questo scopo, sta studiando un modello di conto bancario che agevoli e semplifichi la compravendita di azioni, anche alleggerendo la tassazione sulle relative plusvalenze.
È da settembre scorso – con il rapporto Draghi – che riecheggia il ritornello dei “risparmi immobilizzati nei conti correnti bancari” che anziché “fluire” verso impieghi più remunerativi, giacciono in forme di risparmio tradizionali. Una descrizione talmente distorta e carica di pregiudizi, da suscitare i peggiori cattivi pensieri sulla qualità delle soluzioni in corso di preparazione.
Le parole di Mario Draghi hanno poi trovato seguito con “l’Unione dei risparmi e degli investimenti” lanciata a marzo scorso dalla Commissione con l’obiettivo dichiarato di incentivare i risparmiatori al dettaglio ad investire nel comparto azionario, con una particolare attenzione anche verso la creazione di nuovi piani pensionistici.
Qualche giorno fa il quadro ha cominciato a farsi più nitido e più preoccupante, con il sapiente lancio su Bloomberg di un primo ballon d’essai. Secondo cui la Commissione starebbe guardando, per conseguire il proprio obiettivo, con estremo interesse al “modello svedese”. SI tratta di uno specifico modello di conto di risparmio e investimento bancario (Isk) che semplifica notevolmente l’accesso al mercato azionario, sburocratizza le transazioni attraverso un’agile app utilizzabili da uno smartphone e, soprattutto, azzera il prelievo sulle plusvalenze. Questo ha portato circa un quarto degli svedesi a possedere direttamente azioni che pare diventato “uno sport nazionale”.
Uno sport, aggiungiamo noi, in cui si rischia di farsi molto male e che deve essere praticato da giocatori professionisti (gli investitori istituzionali) e pure di corporatura molto robusta (possessori di grandi ricchezze capaci di assorbire le perdite).
Per questo motivo esistono gli intermediari finanziari. Banche e fondi di investimento che professionalmente raccolgono risparmio dal pubblico al dettaglio e, con una sapiente gestione, frazionamento e diversificazione del rischio, investono in azioni e obbligazioni di società di capitali, prevalentemente quotate. Questa è l’industria del risparmio come la conosciamo e come, peraltro, è costituzionalmente tutelata dall’articolo 47 della Costituzione. Quindi non esiste alcun risparmio “dormiente”. Esistono degli intermediari finanziari che oggi detengono circa 10.000 miliardi di risparmi dei cittadini Ue e che ogni giorno fanno scelte allocative guidati, almeno speriamo, da criteri professionali e sorvegliati da un apparato regolatorio molto stringente.
Invece, nell’immaginifico mondo della von der Leyen, questo sistema impedirebbe alle mitiche start-up di veder affluire capitali decisivi per il loro sviluppo e per la complessiva competitività del sistema imprenditoriale. Ma se un investitore professionale, che oggi detiene i risparmi della casalinga di Voghera, si rifiuta di investire tali risparmi in azioni e obbligazioni emesse dalla Archimede Pitagorico SpA (nome di fantasia), perché mai dovrebbe farlo direttamente la suddetta casalinga, a cui mancano i più banali rudimenti per valutare, frazionare e diversificare il rischio? Davvero qualcuno crede, restando serio, che la cosiddetta e fin troppo sbandierata “educazione finanziaria” sia sufficiente per sostituirsi a una banca o un fondo d’investimento?
Rivoluzionare l’industria del risparmio sembra purtroppo l’ultimo disperato tentativo della Ue di dimostrare di essere in grado di “fare qualcosa” e di rianimare un mercato azionario che resta asfittico non per mancanza di capitali, ma perché le imprese europee hanno redditività relativamente modesta e sono soffocate da una iper-regolazione unica al mondo. Quando le imprese producono utili ed hanno prospettive di crescita, come negli Usa, i capitali fluiscono, direttamente e tramite gli intermediari, senza necessità che il rapporto Draghi o la Commissione si ingegnino a cercare soluzioni nell’iperuranio. A questo proposito temiamo (ma non vorremmo dare idee…) che il passo da incentivi all’investimento azionario a penalizzazioni per i depositi bancari potrebbe essere anche molto breve.
In definitiva, mentre negli Usa la già alta asticella esistente a protezione dei criteri di investimenti dei risparmi per la pensione, viene correttamente ancor più elevata, quando si tratta di investire in prodotti che promettono maggiori rendimenti, ma che, inevitabilmente, comportano maggiori rischi, nella Ue si balbettano soluzioni discutibili. Lasciando credere che più rendimento non significhi anche più rischio. Una regola che i risparmiatori dovrebbero sempre ricordare, senza ascoltare le sirene di Bruxelles.