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Greensill Capital

Vi racconto il papocchio Greensill Capital

Greensill come la crisi dei subprime? Ancora una classica operazione speculativa, con possibili pericolose conseguenze sistemiche. L'analisi di Mario Lettieri e Paolo Raimondi 

 

Nei giorni scorsi il gruppo finanziario Greensill ha portato i suoi libri contabili in tribunale a Londra e dichiarato insolvenza. Greensill Capital è un fondo londinese che porta il nome del suo fondatore.

La sua «mission» iniziale era la finanza della supply-chain: anticipare il pagamento delle fatture, emesse da clienti e fornitori minori nei confronti delle grandi corporation, garantendo loro incassi più celeri.

I fornitori erano contenti di ottenere i pagamenti dovuti e, quindi, di sottrarsi ai tempi lunghi delle corporation. In seguito, la Greensill Capital portava le fatture all’incasso presso le grandi imprese, ottenendo naturalmente un certo premio. Queste ultime vedevano, con soddisfazione, allungarsi i tempi di pagamento. Purtroppo, però, non tutti i bilanci delle imprese coinvolte erano, e sono, trasparenti e solidi. Il sistema veniva propagandato come una «democratizzazione del capitale e della finanza».

Ovviamente, la «monetizzazione» degli asset acquisiti (le fatture da incassare) veniva trasformata in investimenti o in crediti per altre imprese. Ancora più importante era la cartolarizzazione delle fatture acquisite che venivano «impachettate» con altri prodotti finanziari e titoli vari da piazzare agli investitori, in particolare quelli istituzionali. Proprio come accadde negli Usa con i subprime prima della Grande Crisi.

Il sistema veniva internazionalizzato con una rete finanziaria, attraverso la creazione di istituti e di banche, la realizzazione di rapporti con grandi organismi finanziari e assicurativi e la partecipazione attiva in importanti operazioni di finanziamento o di acquisizione di altre corporation.

Ciò è avvenuto con la «benedizione» della City, del governo di Londra e persino della Casa Reale britannica. Lex Greensill è stato consulente speciale per gli affari finanziari del governo di David Cameron, il quale nel 2018 ebbe l’incarico di special adviser della Greensill Capital.

A coronamento di tutto ciò, la regina Elisabetta II nel 2017 nominò Lex Greensill «Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico». Il cerchio magico si era così chiuso. Di fronte a un così promettente pedigree, gli investitori sono stati pronti a partecipare all’affaire.

Prima il fondo americano di private equity, General Atlantic, poi il conglomerato industriale-finanziario giapponese, SoftBank Group. Intanto, il valore di mercato della società aumentava quotidianamente. Del resto, oggi si stima in 55.000 miliardi di dollari il mercato supply-chain.

Con la cartolarizzazione, i «titoli salsiccia», ovviamente con rendimenti superiori a quelli delle normali obbligazioni di Stato, sono stati piazzati a importanti clienti, tra cui la Global Asset Management (Gam), società di gestione patrimoniale svizzera. Anche il Credit Suisse ne avrebbe comprato per i propri clienti per almeno 10 miliardi di dollari. Per rendere i titoli più attraenti era necessario che fossero coperti da importanti compagnie assicurative internazionali. E qui entrò in campo la giapponese Tokyo Marine, che l’anno scorso, verificata la mancanza di solidità della Greensill Capital, decise di non rinnovare le garanzie assicurative su 4,6 miliardi di dollari di crediti.

Nel 2014, Greensill Capital acquistò una banca tedesca, la Nordfinanz Bank AG di Brema, poi Greensill Bank AG, usata per espandere le operazioni della casa madre in molti settori e per raccogliere fondi anche da piccoli risparmiatori. L’iniziale affidabilità della banca ha spinto molti comuni e altri enti pubblici tedeschi a investire in questi «titoli salsiccia». Ora, purtroppo, la banca è esposta per oltre tre miliardi di euro. Perciò la Bafin, l’equivalente della nostra Consob, è stata costretta a sospendere la licenza e a fermare tutte le operazioni finanziarie della banca.

Le conseguenze globali dell’insolvenza della Greensill Capitalsono tutte da verificare. Il rischio sistemico deve essere ancora misurato. La vicenda segue altri casi simili, come quelli di Wirecard e di GameStop. Il ripetersi di questi disastri finanziari speculativi ripropone l’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario internazionale e, comunque, almeno di un coordinamento tra le agenzie di controllo per tutelare i risparmiatori e i settori delle economie reali.

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