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Verità e bugie su debito pubblico e conti pubblici

Il commento di Gianfranco Polillo

Ieri la Borsa di Milano è stata la migliore piazza finanziaria europea. Il FTSE-MIB ha guadagnato il 2,3 per cento, ma incrementi ben più consistenti, che hanno sfiorato il 5 per cento, si sono avuti nel comparto bancario, mentre gli spread scendevano a 235 punti base. Vedremo alla fine della giornata se si sia trattato di una sola rondine o del consolidamento di un nuovo ciclo, che consenta di recuperare le perdite passate.

C’è, invece, una piccola certezza. E’ bastato poco per riattivare il canale degli acquisti. Sono state sufficienti le dichiarazioni rassicuranti del ministro Tria, a Cernobbio, dopo quelle del presidente Conte, per far tornare uno sprazzo di sereno. Nel frattempo un report di Morgan Stanley aveva certificato l’ovvio. Vale a dire che la maggior parte dei titoli presenti nel listino italiano era di gran lunga sottovalutati.

Cosa dimostrano questi avvenimenti? Che l’economia italiana è fortemente resiliente. Che basta ben poco per riattivare speranze e voglia di fare. Quel che manca è solo una politica economica che sappia indicare un orizzonte, verso il quale far convergere le attese degli operatori e delle famiglie. La cosa è, al tempo stesso, evidente e sorprendente. La risposta positiva non si ha nel momento in cui si indicano possibili azioni di intervento. Ma semplicemente quando si promette che non ci saranno sfracelli. Che le regole europee saranno rispettate, nel difficile equilibrio tra promesse elettorali e disponibilità delle risorse. Che il debito pubblico in rapporto al Pil non aumenterà. Che l’euro rimane la grande infrastruttura immateriale da salvaguardare.

Tutto bene, quindi. Ma fino ad un certo punto. Il continuo stop and go, che caratterizza la politica complessiva del governo, nasce da una contraddizione di fondo. I politici – nel senso di Matteo Salvini e Luigi Di Maio – spingono. I tecnici – ossia Giovanni Tria – frenano. Il risultato di questo continuo braccio di ferro è l’andamento a singhiozzo dei mercati. Con gli spread che salgono o scendono a seconda di chi sia stato l’ultimo a parlare. Ed un trend di Borsa avvitatosi, da tempo, in una lunga discesa. Dallo scorso 7 maggio, che segnò il punto di massima relativo, il FTSE-MIB ha perso in media il 18 per cento. Due volte e mezza le perdite fatte registrare da Eurostoxx50: l’indice europeo che riguarda i principali titoli del Continente.

Quali le cause? Soprattutto una: la mancanza di un chiarimento di fondo. Che non significa, ovviamente, dichiarare ai quattro venti intenzioni bellicose. “Non rispetteremo il tetto del 3 per cento”. “L’Europa non ci può obbligare”. “La Francia e la Spagna hanno violato il patto da diversi anni”. E via dicendo. Ma accompagnare le dichiarazioni rassicuranti, circa il rispetto degli impegni presi, pur nell’ambito di una necessaria trattativa, con una critica più radicale delle attuali regole europee. Il tema di fondo è, naturalmente, l’architettura del “Patto di stabilità” che non regge alla verifica dei risultati conseguiti. Basta guardare a come il rapporto debito-Pil, a partire dalla crisi del 2008, sia cresciuto non solo in Italia, ma in tutti i Paesi europei. Segno evidente che le politiche di austerità, non sono poi state quel toccasana che qualcuno riteneva.

Si tratta, in altri termini, di lottare contro una retorica dominante. Voluta soprattutto dalla Bundesbank, nel rispetto delle tradizioni culturali di quel Paese, ma poi avallata dai benpensanti d’ogni credo e religione. Anche a costo di determinare quel fossato tra popolo ed establishment che i movimenti, cosiddetti “populisti” cercano ora di superare. Battaglia, ovviamente, non facile, ma necessaria. Se si intende portare avanti un programma che riconcili le esigenze della politica, dopo lo smottamento elettorale, con i dati delle contabilità di Stato.

Può avere successo? Ci vorrà il tempo necessario, per rimettere insieme nozioni apparentemente lontane. Ma si può fare. Si può partire ad esempio dalle considerazioni del Fondo monetario internazionale, sugli squilibri relativi alle diverse bilance dei pagamenti. Prendere alcuni passi del documento dei Cinque Presidenti (“Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa”) in cui, con una chiarezza che ha pochi precedenti in materia, si accenna al surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti che possono mascherare situazioni di carenza della domanda interna, rispetto al potenziale produttivo esistente. Un limite alla crescita che l’Italia sta da tempo sperimentando. E poi cercare il necessario punto di caduta.

Essa non può che essere data da una “modifica – integrazione” delle regole del “fiscal compact”. I cui vincoli dovranno divenire più o meno stringenti a seconda dello stato delle partite correnti della bilancia dei pagamenti di ciascun Paese. Con una stretta anche maggiore in caso di deficit, ma accordando maggiori margini per una politica rigorosamente di sviluppo in caso di surplus. Che se non governato non fa altro che tradursi in fuga del maggior risparmio accumulato verso l’estero. Prevalentemente sotto forma di investimento – almeno per quanto riguarda l’Italia – di portafoglio. Il che, considerando il livello di disoccupazione esistente nel nostro Paese, non è proprio un bel vedere. Ma queste sono state le follie che hanno contribuito a bruciare una vecchia classe dirigente. Perseverare nell’errore sarebbe più che diabolico.

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