skip to Main Content

Disoccupazione

Ecco i veri effetti del decreto Dignità alla Di Maio sull’occupazione

L'analisi dell'editorialista Giuliano Cazzola

In un tweet a commento dei dati Istat sull’occupazione di settembre Francesco Seghezzi, un giovane e brillate studioso allievo di Michele Tiraboschi, ha scritto: ”Grande calo degli occupati a tempo indeterminato che diminuiscono di 77mila unità, mentre crescono di 27mila quelli a termine e di 16mila gli autonomi. Decreto Dignità non pervenuto”.

A tal proposito non va dimenticato che le nuove norme sono entrate in vigore il 1° novembre dell’anno in corso per rinnovi e proroghe stipulati successivamente. Tuttavia, in un anno sono diminuite 184mila unità a tempo indeterminato (-1,2%) mentre sono cresciuti di oltre il 13% i contratti a termine.

Ciò, secondo Seghezzi, è il dato che impressiona di più e che dimostra che è avvenuto un cambiamento strutturale nel mercato del lavoro. A quanto pare, tutti i tentativi di rendere più difficile e oneroso il contratto a tempo determinato sono falliti; viceversa, non hanno ottenuto il successo sperato le misure rivolte a favorire le assunzioni a tempo indeterminato.

Anche a seguito della legge di bilancio per il 2015 – quando le assunzioni e le trasformazioni a tempo indeterminato furono incentivate con un bonus di oltre 8mila euro all’anno per un triennio – vi fu un consistente balzo in avanti dei rapporti stabili, ma in numero di quelli a termine continuò ad essere superiore.

È bene precisare che parliamo di dati di flusso, perché se si prendono in considerazione quelli di stock, l’Italia (con l’84% di rapporti a tempo indeterminato) è ai primi posti in Europa (mentre il numero dei contratti a termine è in linea con quello dei maggiori Paesi). Ne deriva, pertanto, una constatazione ovvia: il mercato del lavoro ha delle dinamiche interne corrispondenti a esigenze che non possono essere coartate da regole e procedure dettate, nei fatti, da visioni ideologiche che continuano a giudicare standard una sola tipologia di lavoro mentre considerano forme spurie tutte le altre.

Un riscontro fattuale delle conseguenze del decreto dignità viene anche da una nota dell’Osservatorio Lavoro del Centro Studi della CNA (dati di settembre 2018).

”Complessivamente – è scritto – i nuovi posti di lavoro creati in settembre sono il 3,6% dell’intera base occupazionale registrata alla fine del mese (si tratta del secondo valore più alto dopo quello registrato a gennaio 2018) mentre i rapporti di lavoro cessati sono risultati invece pari al 4,0% della stessa (il secondo valore più alto dopo quello registrato a dicembre 2017).

Insieme, i flussi di lavoratori in entrata e in uscita, pari complessivamente al 7,6% dell’occupazione, hanno raggiunto il valore più elevato da quando esiste questo Osservatorio, segnalando un aumento del turn over nelle imprese monitorate.

Si tratta probabilmente di un primo effetto delle nuove norme in tema di lavoro contenute nel cosiddetto Decreto Dignità che, reintroducendo la causale per i contratti a tempo determinato di durata superiore all’anno, spingono di fatto le imprese a occupare la manodopera per periodi inferiori ai dodici mesi”.

È presto per tirare delle somme. L’esperienza insegna, però, che nessuno può costringere un’azienda ad assumere applicando regole e modalità che essa non ritiene (e non un fatto solo economico) sostenibili. Tanto più che lo stesso decreto dignità e una sentenza della Consulta hanno rivisto e rimesso in discussione (rimodulando, il primo, l’ammontare dell’indennità risarcitoria e ridefinendo, la seconda, i poteri del giudice per la sua determinazione) le certezza dei costi in caso di licenziamento.

In termini generali, a settembre il tasso di disoccupazione è risalito al di sopra del 10% (al 31,6% quella giovanile). Ovviamente il dato è rotolato sul tavolo del governo. Il ministro Luigi Di Maio avrebbe potuto limitarsi – come ha fatto – a chiamare in causa il rallentamento della crescita e del commercio internazionale, assicurando, invece, che la situazione sarebbe stata ampiamente recuperata grazie alla manovra espansiva del bilancio e al c.d. sblocco del turn over a seguito dell’introduzione di quota 100 a favore dei pensionamenti anticipati.

Nessuno (tanto meno chi scrive) sarebbe stato obbligato a credergli, ma la spiegazione avrebbe avuto una logica. Il titolare dello Sviluppo e del Lavoro ha evocato, a sproposito, ”l’ultimo colpo di coda del jobs act”, dimenticando che questa filiera di provvedimenti, adottati nel corso della passata legislatura, è in vigore da un triennio e che, in questo stesso periodo, l’occupazione è aumentata fino a recuperare il livello precedente la crisi.

Back To Top