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Un minestrone chiamato Filiera Italia

Quali sono gli scopi - e chi sono i soci, anche sorprendenti - di Filiera Italia. La lettera di Francis Walsingham

 

Caro direttore,

mea culpa mea culpa. Confesso subito ai lettori di Start Magazine che sono stato incompleto nella disamina sull’ultima mia missiva. Tu me lo hai fatto notare dopo averla pubblicata (sei un direttore liberale, forse troppo, anche se i liberali doc della prestigiosissima Fondazione Einaudi non si capacitano per i tuoi pizzicotti liberalissimi che riservi loro a colpi di einaudismi…) e mi hai pregato di integrare le informazioni. Lo faccio ora doverosamente anche perché mi scoccerebbe molto parteggiare per una confederazione piuttosto che per un’altra.

Vengo al dunque.

Parlavo nella mia ultima lettera di “Mediterranea”, l’associazione formata a gennaio da Unione Italiana Food e Confagricoltura, che mette insieme l’industria alimentare e gli agricoltori. Si tratta, ha rimarcato Mario Sassi, esperto del settore della distribuzione e dell’agroalimentare, della “risposta a Filiera Italia, l’alleanza tra la produzione agricola con un centinaio di imprese italiane di trasformazione alimentare e diverse catene della distribuzione organizzata, creata da Coldiretti”.

Ho sottolineato la bizzarria che tra i promotori di Unionfood e del cibo made in Italy ci fossero il colosso Coca-Cola e i maggiori gruppi farmaceutici, forse perché produttori anche di integratori (made in Italy?).

Orbene, vediamo ora quali sono gli scopi dell’associazione voluta da Coldiretti? “Filiera Italia promuove il modello agroalimentare italiano nel suo insieme, ponendo al centro l’origine della produzione agricola italiana come garanzia di distintività e salubrità: è proprio da questo valore fondante che nascono i progetti e le attività volte alla valorizzazione delle eccellenze italiane e alla tutela delle filiere agroalimentari nei contesti nazionali e internazionali – si legge sul sito – Promuoviamo il vero agroalimentare Made in Italy come modello di riferimento per le sfide future globali del cibo”.

Questi i proponimenti di Aia, Amadori, Biraghi, Montana, Beretta, Ibis, Plasmon, Ponti e Rana, per citare solo alcuni dei soci. Tra i quali ci sono però anche gruppi non propriamente agricoli o agroalimentari come Eni, Enel, Poste Italiane, Terna e Snam. Che ci azzeccano? È la medesima domanda che ci si poneva a proposito delle aziende farmaceutiche nel caso di Unionfood.

A che servono queste associazioni-minestrone? Servono ai vertici per farsi intervistare dai giornali? Servono per mostrare i muscoli alle istituzioni? Sono utili rispettivamente a Coldiretti e Confagricoltura per continuarsi a farsi la guerra?

Con codeste domande nella mente, ti saluto.

Francis Walsingham

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