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Pandemia Ricchi Aiuti Di Stato

Tutti i difetti degli aiuti di Stato concessi dal governo

Gli aiuti del Mef di Gualtieri alle imprese? Tutti entro il tetto voluto dalla Ue. Ma ci sono figli e figliastri. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

Oltre al danno, la beffa. Gli aiuti che lo Stato ha via via concesso a partire da marzo devono restare entro il limite massimo di 800.000 euro.

Questa cifra potrebbe diventare a breve l’incubo di qualsiasi impresa italiana che ha avuto la fortuna di ricevere agevolazioni di varia natura disposte dai decreti legge che si sono succeduti da marzo a fine ottobre (Cura Italia, Liquidità, Rilancio, Agosto e Ristoro). Infatti, questi decreti contengono numerose misure definite dalle norme Ue come aiuti di Stato e che, di conseguenza, come vedremo in seguito, sono ritenute sì ammissibili ma entro il limite anzidetto. Il risultato sarà quello di rendere presto di fatto inutilizzabili numerosi benefici varati dal Governo. Se a questo si aggiunge che il confronto europeo ci vede, come al solito, penalizzati, la beffa è completa.

Perché rischiamo di finire in questo collo di bottiglia? Partiamo dalla definizione di aiuto di Stato: si tratta di misure di aiuto pubblico che non riguardano tutta l’economia e conferiscono un vantaggio selettivo limitato a determinati settori o tipi di imprese, falsando o minacciando di falsare la concorrenza nel mercato interno. Che è un po’ il “Sacro Graal” della costruzione europea. Affinché le misure anticrisi possano superare questo divieto, secondo l’articolo 107 del Trattato sul funzionamento della UE, si deve dimostrare che

  1. l’aiuto sia di portata generale e quindi fuori dal particolare regime restrittivo;
  2. oppure che si tratti di aiuti destinati, tra l’altro:
  • a “ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” (107, comma 2 lettera b)
  • o che siano aiuti “destinati a porre rimedio ad un grave turbamento dell’economia” dello Stato membro (107, comma 3 lettera b)

C’è una fondamentale differenza tra la prima causa di esenzione e la seconda: entrambi vanno notificati ma il primo aiuto è, per definizione, compatibile col mercato interno, e quindi non ha bisogno della preventiva approvazione da parte della Commissione, al contrario del secondo aiuto che “può” considerarsi compatibile col mercato interno, solo dopo la notifica e la relativa approvazione. Sembra una distinzione di lana caprina ma non lo è, poiché è su questa differenza che ballano decine di miliardi di aiuti.

Non dimentichiamo che, nel 2015, una decisione della Commissione ritenne aiuto di Stato una irrilevante ricapitalizzazione di Banca Tercas per 300 milioni, innescando la risoluzione di 4 banche ed una crisi epocale delle banche italiane.

Quando il 19 marzo scorso, di fronte alle disastrose conseguenze economiche del blocco di numerose attività produttive e di servizi a causa del Covid, la Commissione ha varato il Quadro Temporaneo (Temporary Framework) relativo agli aiuti di Stato, ha definito ben dodici misure agevolative di varia natura, quasi tutte riconducibili alla finalità di porre rimedio ad un grave turbamento dell’economia (107, comma 3, lett. b).

L’elenco è lungo: aiuti di importo limitato (sovvenzioni dirette, agevolazioni fiscali e di pagamento o altre forme) aiuti sotto forma di garanzie statali sui prestiti per garantire l’accesso alla liquidità delle imprese, tassi di interesse agevolati per i prestiti pubblici e garanzie e prestiti veicolati tramite banche, assicurazione del credito all’esportazione a breve termine da parte dello Stato, aiuti per la ricerca e sviluppo e per gli investimenti per la produzione di prodotti connessi al Covid-19, aiuti sotto forma di differimento delle imposte e/o dei contributi previdenziali, aiuti sotto forma di sovvenzioni per il pagamento dei salari, aiuto per la ricapitalizzazione a favore delle imprese, sostegno per i costi fissi non coperti dalle imprese.

Gran parte delle misure di sostegno adottate dal nostro governo trovano fondamento giuridico in uno di quei dodici tipi di aiuto di Stato considerati ammissibili, sono state notificate a Bruxelles e, per ciascuna di esse, c’è una decisione della Commissione che ne attesta la conformità al Temporary Framework (TF). Da marzo a fine ottobre, si tratta di 22 decisioni autorizzative.

Il problema per noi è che la gran parte di esse o sono consentite entro il vecchio “de minimis” da € 200.000 o entro il nuovo limite del TF da € 800.000. Hanno quasi tutte il terribile difetto di “consumare” uno di questi due plafond.

Cinque esempi per comprenderci: il contributo a fondo perduto per le imprese (art. 25 “Rilancio”), l’aiuto per la ricapitalizzazione delle imprese (art. 26 “Rilancio”), il fondo per la promozione integrata sui mercati esteri (art. 72 “Cura Italia”), il credito di imposta per le locazioni commerciali (art. 28 “Rilancio”) e la decontribuzione del 30% per il Sud (art. 27 Decreto “Agosto”) assorbono tutti il plafond da € 800.000 del TF.

Con il risultato che nelle imprese è ormai partita la corsa ad ostacoli per evitare lo splafonamento e, soprattutto, evitare di incorrere in sanzioni penali, oltre che nell’obbligo di restituzione delle somme illecitamente percepite. Il penale rischia di scattare perché, al momento della richiesta delle agevolazioni, le imprese presentano un’autocertificazione attestante la disponibilità del plafond che potrebbe rivelarsi successivamente falsa qualora siano pendenti altre richieste di aiuto non ancora concesse e, nel frattempo, ricevute.

Il limite dell’azione del nostro Governo sta proprio nella decisione di aver supinamente e prevalentemente instradato tutte le agevolazioni lungo il sentiero del “rimedio ad un grave turbamento dell’economia” anziché lungo quello degli “aiuti per eventi eccezionali”. In quest’ultimo caso, il limite di € 800.000 non si applica.

Sul punto, il confronto con la Germania che già a maggio vantava il record nella UE di aiuti di Stato alle proprie imprese (circa 1.000 miliardi su 2.000 complessivi, con l’Italia ferma a 300) è impietoso. A prescindere dal maggior spazio offerto dal loro bilancio pubblico, i tedeschi hanno spinto al massimo sulla leva dell’evento eccezionale: miliardi per gli aeroporti, per le società di trasporto pubblico regionale, per gli operatori turistici, per la Lufthansa (6 miliardi contro i 199 milioni erogati ad Alitalia), perfino la compagnia charter Condor ha ricevuto 550 milioni. Tutto senza plafond.

Invece, il nostro Paese ha messo tutte le uova nello stesso paniere: ha concesso gli aiuti di varia natura, in precedenza elencati in modo non esaustivo, facendo riferimento quasi esclusivamente ai dodici casi di aiuti ammissibili secondo il Temporary Framework (Tf) la cui scadenza è stata prorogata il 13 ottobre al 30 giugno. Con ciò contribuendo solo ad amplificare il problema: infatti, cosa se ne fanno le imprese di un ulteriore termine per fare ciò che già oggi non riescono a fare, visto che danzano sul filo di equilibrio del superamento del plafond?

Poco o nulla è stato concesso alle imprese ai sensi dell’articolo 107 secondo comma lettera b), che giustifica aiuti concessi per ovviare ai danni causati da calamità naturali ed altri eventi eccezionali. Un documento, pubblicato il 10 novembre dalla Commissione, mostra che da marzo essa ha autorizzato 29 misure con questa giustificazione. Soltanto una, dicasi una, è relativa all’Italia (199 milioni erogati ad Alitalia).

Ma il problema non sembra fermarsi qua, poiché un ulteriore aspetto aumenta la sensazione di imperizia o pigrizia del Governo. Dopo l’allarme lanciato dal quotidiano Sole 24 Ore il 29 ottobre scorso, circa il rischio di restituzione degli aiuti di Stato e la parziale smentita del giorno dopo (“Il Governo: aiuti, trattiamo con la Ue”), abbiamo la conferma, visionando documenti riservati provenienti da fonti al massimo livello comunitario, che la trattativa si è conclusa in modo infruttuoso: i servizi della Commissione hanno ribadito che il calcolo del limite di ottocentomila euro sarà eseguito non a livello di singola impresa beneficiaria, ma di impresa “come unità economica”. Concetto del tutto indefinito e lasciato a valutazioni caso per caso, che non coincide nemmeno con quello di “impresa unica” che pure esiste a livello UE ed è utilizzato per calcolare la soglia dei contributi “de minimis” e anche la distinzione tra piccole/medie e grandi imprese. In prima approssimazione, i conti si faranno a livello di gruppo, anche se la definizione non è perfettamente coincidente.

È facilmente immaginabile il caos che si scatenerà, anche perché in Italia è stato attivato il Registro Nazionale degli Aiuti (Rna) a livello di singola impresa beneficiaria e Francia e Germania, ad esempio, non hanno nemmeno quello e le autocertificazioni richieste dall’ente nazionale concedente rischiano di essere un boomerang.

La vicenda è nata perché il governo, con il decreto “Rilancio”, varò uno schema di aiuti concedibili da Regioni, Province autonome e Camere di Commercio con fondi propri, del valore di 9 miliardi. Anche tale regime-quadro, pur non essendo concesso dallo Stato centrale, ricalcava perfettamente gli aiuti concedibili ai sensi del Tf. Quando il 21 maggio la Commissione ne dichiarò la compatibilità, le Regioni predisposero autonomi strumenti agevolativi che non necessitavano di ulteriori approvazioni, purché coerenti con il regime-quadro autorizzato. Ma la Commissione qualche giorno fa ha ribadito che, non solo tali strumenti concorrono a “consumare” il plafond unico, ma “la Commissione non può accettare l’interpretazione di impresa singola beneficiaria e considererà diversi soggetti giuridici come facenti parte di un’unica entità economica ai fini degli aiuti di Stato”. Con ciò gettando Regioni ed imprese nella più totale incertezza sul da farsi.

Su un altro versante, mentre il Governo ha dimostrato ottima vista nel seguire pedissequamente il TF della Commissione è stato invece colpito da improvvisa presbiopia al punto 3.12 introdotto proprio con l’ultima modifica del 13 ottobre. È infatti possibile concedere alle imprese un aiuto fino al 70% (90% per le micro e piccole imprese) dei costi fissi non coperti dagli utili sostenuti nel periodo 1 marzo 2020 – 30 giugno 2021, a condizione che si registri una perdita di fatturato almeno del 30% rispetto ad uno stesso periodo del 2019. In sostanza, basta considerare le perdite subite nel periodo di riferimento e calcolare il contributo. Una misura più che adeguata per alberghi, ristoranti, bar ed attività ricreative e culturali, falcidiate dalle misure restrittive delle ultime settimane e della primavera scorsa. Invece il governo, col decreto “Ristoro” si è rifugiato nella replica dell’economicamente irrilevante contributo a fondo perduto già erogato a giugno.

Proprio su questo punto, in Danimarca non hanno badato a spese anche se resta da capire come sia stato possibile. Senza voler sospettare che “c’è del marcio in Danimarca” – perché lungi da noi anche solo ipotizzare che il ruolo di Commissario alla concorrenza, ricoperto dal 2014 dalla danese Margrethe Vestager, abbia avuto una sia pur minima importanza – c’è da fare i complimenti al governo danese per l’ingente ammontare di aiuti di Stato che è riuscito a spendere a favore delle proprie imprese. Sta di fatto che un Paese il cui Pil è circa un sesto di quello italiano campeggia, assieme ad Austria e Germania, in cima alla lista degli Stati membri che hanno concesso aiuti di Stato ritenuti ammissibili perché “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” (articolo 107 comma 2 lettera b del Tfeu). I rispettivi governi hanno erogato alle imprese danesi, austriache e tedesche, nell’ordine, 7, 8 e 6,5 miliardi senza che ciò venisse considerato distorsivo della concorrenza. Su 29 decisioni approvate per eventi eccezionali, ben 7, record assoluto, sono relative alla Danimarca.

In questa classifica, l’Italia figura tra gli ultimi, avendo concesso solo 199 milioni ad Alitalia.

Beninteso si tratta solo di una frazione minoritaria di tutti gli aiuti di Stato autorizzati dalla Direzione generale Concorrenza, che dipende dalla potente vice presidente della Commissione.

Infatti, la parte preponderante degli aiuti sono stati autorizzati ai diversi Stati membri “per porre rimedio a un grave turbamento dell’economia” (articolo 107 comma 3 lettera b del Tfeu) o “per agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche” (articolo 107 comma 3 lettera c del Tfeu).

Dopo lo scoppio della pandemia i danesi non hanno badato a spese e già l’8 aprile hanno ricevuto dalla Commissione l’approvazione di uno schema di aiuti per complessivi 5,4 miliardi per le imprese che nel periodo dal 9 marzo al 9 giugno hanno subito una perdita di fatturato superiore al 40%. A tali imprese, lo Stato prometteva di riconoscere il parziale o totale ristoro, in relazione all’entità della perdita di fatturato subita, dei costi fissi sostenuti, fino ad un massimo di 8 milioni per impresa. Una cifra dieci volte superiore al tetto previsto dal Tf per tutte le altre imprese UE.

Se si riflette sul fatto che nel secondo trimestre 2020, rispetto al primo, il Pil danese è sceso “solo” del 6,8%, mentre quello italiano ha perso il 13% ed i danesi, a causa del Covid, hanno contato 130 morti per milione di abitanti, contro i 384 della media UE, si apprezza ancora di più la tempestività e la magnitudo della risposta dei connazionali di Amleto alla crisi economica da Covid.

A noi resta l’amara considerazione di non aver potuto (o saputo?) seguire il loro esempio ed aver invece disperso un flusso di circa 100 miliardi di extra deficit, peraltro non tutti effettivamente spesi, in una miriade di norme, che oggi costringono gli imprenditori a muoversi con mille cautele nel timore di sforare il tetto massimo e dover restituire gli aiuti.

Spiace constatare che, in occasione di una crisi, come accadde anche nel 2012/2013, la Ue è causa di aumento delle divergenze economiche anziché funzionare da ammortizzatore almeno in grado di attutirle.

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