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Economia

Tutte le incognite sull’economia mondiale

Quanto durerà l’apertura tedesca verso le politiche di crescita? Che faremo nel 2027 quando dovremo iniziare a ripagare i prestiti del Recovery Fund? Per quanto tempo durerà il sostegno monetario della Bce? L'analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos

Nel 1938 il Pil italiano fu poco meno della metà del Pil della Gran Bretagna. Era grosso modo la stessa proporzione del 1913, dato che i due paesi, tra le due guerre mondiali, avevano registrato, sia pure con cicli diversi, un tasso di crescita simile. Nel 1938 l’economia italiana era l’ottava del mondo.

L’Italia perse la guerra, la Gran Bretagna la vinse. Nonostante questo, il Pil italiano superò quello del Regno Unito nel 1987. Il sorpasso, come fu allora definito dalla stampa, fu molto pubblicizzato in Italia. La stampa inglese mise in rilievo il fatto che l’Italia, diventata ora quinta economia del mondo, aveva appena rivalutato il suo Pil includendovi l’economia informale (come viene pudicamente chiamata quella che non paga le tasse anche se in teoria dovrebbe farlo) e parti di economia illegale o borderline, una pratica di contabilità nazionale che in seguito sarebbe stata adottata da altri paesi dell’Unione Europea, tra cui i Paesi Bassi.

Nel 2020 il Pil italiano, espresso in dollari, è stato di 1.85 trilioni. Quello del Regno Unito, sempre in dollari, è stato di 2.64 trilioni. L’Italia è tornata a essere l’ottava economia del mondo. La distanza aumenterà ancora quest’anno, perché il Regno Unito, nonostante Brexit, sarà il paese industrializzato con la crescita più forte (più della Cina, più dell’America e il doppio dell’Italia).

Emerge da queste cifre come l’Italia abbia avuto una formidabile crescita, superiore alla media degli altri paesi, durante il superciclo in cui hanno prevalso a livello globale le politiche della domanda e un’altrettanto formidabile sottoperformance per tutto il superciclo in cui hanno prevalso le politiche dell’offerta. Partiamo da qui per capire la possibile evoluzione futura, ora che è iniziata la transizione verso un nuovo superciclo della domanda.

La prima transizione dall’offerta alla domanda avvenne su scala globale negli anni Trenta del secolo scorso. Il fascismo italiano passò da una fase ultraliberista nella prima parte degli anni Venti (austerità, privatizzazioni, libero scambio, pareggio di bilancio, cambio forte come obiettivo) a una fase di segno opposto nella seconda metà degli anni Trenta (welfare, nazionalizzazioni, autarchia, controllo dei movimenti di capitale, svalutazione, spesa pubblica in disavanzo monetizzato). Il passaggio fu in linea con quello degli altri paesi per quanto riguarda la direzione, ma entrambe le fasi ebbero una particolare radicalità (una caratteristica, come vedremo, che si riprodurrà fino ad oggi).

Il superciclo della domanda apertosi in Italia nel 1936, con un po’ di ritardo rispetto all’America, si chiuderà nella seconda metà degli anni Ottanta, anche qui con un certo ritardo (o, per meglio dire, con una transizione più lunga) rispetto agli altri paesi. Semplificando, la fase postbellica del superciclo può essere suddivisa in tre sottofasi.

Nella prima alcune politiche dell’offerta (abbassamento dei dazi, bassa pressione fiscale, basso livello di regolazione) affiancano la forte politica di investimenti pubblici in settori strategici. È la fase con i migliori risultati, tanto che la crescita media annua del Pil italiano, tra il 1951 e il 1971, è del 5.3 per cento.

Nella seconda sottofase, gli anni Settanta, le politiche della domanda si fanno più forti (aumenti salariali, rigidità del mercato del lavoro, aumento della pressione fiscale, reregulation e controllo dei movimenti di capitale) e quelle dell’offerta sempre più deboli. Con una domanda più forte e un’offerta stagnante parte, come in tutto il mondo, l’inflazione.

Nella terza sottofase, gli anni Ottanta, vengono reintrodotte alcune politiche dell’offerta (parziale deindicizzazione dei salari, divorzio Tesoro- Banca d’Italia) ma rimangono molto forti le spinte dirigiste che vengono esercitate attraverso gli investimenti pubblici. Ne risulta una crescita di nuovo elevata, ma poggiata in misura crescente sul debito.

Elemento comune delle tre sottofasi, giova ripeterlo, sono i forti investimenti pubblici affiancati, fino alla fine degli anni Sessanta, da forti investimenti privati.

Dalla fine degli anni Ottanta il vento completa anche in Italia il suo cambiamento di direzione. Per preparare il suo ingresso nell’euro l’Italia è sollecitata a privatizzare, liberalizzare il mercato del lavoro e contenere il debito. La domanda inizia a subire pressioni al ribasso da tutte le direzioni. In particolare, cadono strutturalmente gli investimenti anche perché le privatizzazioni trovano i nuovi soggetti proprietari fortemente indebitati.

Con la Grande Recessione del 2008 le cose precipitano. L’Italia patisce una seconda recessione idiosincratica nel 2012 e una crisi bancaria nel 2015-16. Dal 2008 al 2015 il Pil cade in misura ampiamente superiore a quella registrata durante la Grande Depressione degli anni Trenta. La componente del Pil che crolla maggiormente è quella degli investimenti. Chiedono meno credito le imprese, ne concedono ancora meno le banche, chiamate da Bruxelles a contenere i loro rischi.

È storia nota e non ci dilunghiamo. Se il Pil procapite italiano è più basso di trent’anni fa, la borsa è sugli stessi livelli e i prezzi delle case, unico caso al mondo, sono rimasti immobili le ragioni sono tante, ma la caduta degli investimenti è certamente una delle più importanti.

Il nuovo superciclo globale della domanda crea le condizioni per una ripresa anche in Italia. In questi anni particolarmente duri il nostro sistema industriale si è riorganizzato. Sono perduti per sempre alcuni campioni nazionali da una parte e molte piccole imprese a basso contenuto di tecnologia dall’altra. I primi sono stati salvati in altri paesi e abbandonati da noi, le seconde potevano essere in parte aiutate ad affrontare la concorrenza cinese ma sono state anch’esse abbandonate. Pace.

Quello che resta, in compenso, è solido e vivace. Una parte si è pienamente integrata nella filiera produttiva tedesca e trarrà beneficio dalla ripresa globale dell’auto. Un’altra parte si è organizzata per competere in prima linea sui mercati globali in settori magari di nicchia, ma ad alto valore aggiunto. Se l’Italia nel 2020 ha fatto registrare nonostante il crollo del turismo un avanzo delle partite correnti del 3.4 per cento (mentre la Francia ha aggravato il suo disavanzo portandolo al 2) non è solo per la caduta dei consumi (e quindi delle importazioni) ma anche perché le imprese italiane sono riuscite ad agganciare molto bene la ripresa cinese e americana.

Se su questo tessuto più piccolo, ma sano, di imprese si innesterà la forte ripresa di investimenti pubblici creata dal Recovery Fund l’Italia eviterà di formare di nuovo quelle cicatrici che l’hanno sempre più deturpata dopo tutte le crisi (il fenomeno di isteresi per cui il potenziale di crescita si riduce dopo ogni recessione).

L’Italia non recupererà le posizioni perdute nella classifica mondiale delle economie, anzi ne perderà ancora, ma questa volta più per particolari meriti altrui che per demeriti suoi. Al gelo degli ultimi decenni si sostituirà un certo tepore, almeno per qualche anno. Per le prospettive di lungo termine molte questioni restano aperte. Quanto sarà possibile al mondo crescere di più senza creare inflazione? Quanto durerà l’apertura tedesca verso le politiche di crescita? Che faremo nel 2027 quando dovremo iniziare a ripagare i prestiti del Recovery Fund? Per quanto tempo durerà il sostegno monetario della Bce?

Avremo tempo per rispondere a queste domande. Nel frattempo godiamoci questa fase di allargamento della ripresa dai mercati finanziari all’economia reale e non trascuriamo le opportunità che offre l’Italia. Certo, i mercati sono un po’ stanchi e si prenderanno presto qualche settimana di pausa per consolidarsi, ma la ripresa dell’economia reale darà loro forza strutturale, quella che conta davvero.

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