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Mes Europa

Tutte le incognite sui piani italiani con il Recovery Fund

Il punto di Giuseppe Liturri sul Recovery Fund

 

Non passa giorno senza che da qualche angolo della penisola si levi una voce che reclama un pezzettino delle risorse del Next Generation UE (così è stato ribattezzato il Recovery Fund, ma sempre di quello si tratta). Ormai la fantasia non ha più limiti: si spazia dalle funivie a Roma alla ricostruzione delle aree del centro Italia ancora sotto le macerie dopo il terremoto.

Ma dobbiamo ricorrere al titolo di un vecchio film dei Vanzina (“Sotto il vestito niente”) per offrirvi una lapidaria sintesi dell’audizione del Commissario UE Paolo Gentiloni avvenuta martedì scorso presso le Commissioni riunite Bilancio e Politiche dell’Unione Europea di Camera e Senato.

Gentiloni è intervenuto sul tema dell’individuazione delle priorità nell’utilizzo del Recovery Fund, definito Next Generation EU (Ngeu) nell’accordo politico del Consiglio Europeo dello scorso 21 luglio. Dei complessivi 750 miliardi, ben 672,5 saranno erogati dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (Rrf), di cui 360 miliardi di prestiti e 312,5 miliardi di sussidi. L’accesso a questo strumento prevede come condizione preliminare la presentazione di piani nazionali per la ripresa e la resilienza.

Il Commissario ha forse deluso le (mal riposte) aspettative di deputati e senatori che sostengono il governo, nelle cui orecchie ancora riecheggia il micidiale uno-due sferrato nella replica finale, dove a “guai a pensare che usiamo i 200 miliardi per ridurre le tasse, sarebbe davvero un messaggio sbagliato” ha fatto seguito “non basta una collezione di progetti già presenti nei cassetti”.

Ed allora cosa si potrà fare con questi soldi? Poco o nulla di quanto viene vagheggiato questi giorni sui giornali. Dietro la dichiarazione di principio secondo cui saranno i singoli Paesi a redigere i piani – che non saranno quindi dettati da Bruxelles come gli sciagurati piani di aggiustamento macroeconomico del passato – Gentiloni ha ripetuto il perimetro entro cui l’Italia potrà muoversi: transizione verde ed ambientale, transizione digitale ed innovazione, il rispetto delle raccomandazioni Paese e rafforzamento del potenziale di crescita. Il primo punto che costituisce condizione preliminare per una valutazione positiva e che deve comunque assorbire almeno il 35% delle risorse complessive. Un perimetro ad altissima discrezionalità e con discutibile sovrapponibilità con altre priorità tipicamente nazionali. In ogni caso, un bel secchio d’acqua gelata su chi continua a parlare di sgravi fiscali o mitologici progetti di tunnel e ponti sotto o sopra lo stretto di Messina. Il bilancio 2021, a legislazione vigente, contiene voci di spesa difficilmente inscrivibili in quel perimetro. Quindi o si pianificano nuove spese gradite a Bruxelles o niente fondi.

Il punto è quindi proprio questo: fino a che punto i paletti indicati dal Consiglio coincidono con le priorità del Paese? Potremo utilizzare quei fondi per rifare le reti pubbliche (strade ed autostrade in primis) che cadono a pezzi dopo oltre 20 anni di avanzo primario di bilancio o mettere finalmente in sicurezza il precario assetto idrogeologico di numerose aree della penisola? Che sorte potrebbe subire un piano finalizzato a migliorare il patrimonio edilizio scolastico spesso fatiscente, per non parlare degli investimenti sui docenti? Gentiloni non è andato oltre l’invito a avere “il coraggio di scegliere e di guidare questa ripresa e questa ricostruzione perché o lo facciamo oggi o sarà difficile farlo in un’altra occasione”. È noto che l’effetto moltiplicatore in termini di crescita del Pil della spesa per l’edilizia è tra i più elevati. E se la Commissione privilegiasse spese che attivano filiere di fornitura situate in giro per l’Europa, quale crescita potremmo mai registrare in Italia? Ad insindacabile giudizio di Bruxelles, si tratta di sciogliere “i nodi che da oltre 20 anni limitano la crescita”. E la Commissione ha già fatto sapere che sta predisponendo rigide linee guida e modelli di richiesta per evitare che piova a Bruxelles di tutto.

Gentiloni ha fatto finta di non ricordare che quest’ultimo ventennio di crescita asfittica è anche il risultato di una relativamente rigida disciplina di bilancio pubblico ed è noto che le nozze con i fichi secchi non riescono benissimo.

Dopo la candida ammissione dei danni causati all’Italia nel 2012, imponendo troppo presto una stretta di bilancio, non è arrivata alcuna buona notizia nemmeno sul fronte dei tempi. Dal momento della proposizione formale dei piani, che avverrà entro aprile 2021, la Commissione avrà 8 settimane per valutare e proporre i piani al Consiglio che avrà 4 settimane per decidere. Quindi l’anticipo del 10% non si vedrà prima di giugno 2021.

È arrivata invece la conferma che le obbligazioni emesse dalla UE per finanziare questi progetti saranno rimborsate con “risorse proprie” della Commissione. Come se fossero zecchini da raccogliere nel campo dei miracoli. Invece questo termine della neo-lingua orwelliana dei Commissari indica contributi e tasse a carico degli Stati membri, cioè soldi “nostri”. Non a caso, il regolamento che disciplina questo aspetto è in avanzato stato di definizione, altrimenti i mercati – guidati dal detto “pagare moneta, vedere cammello” – non concederebbero la tripla A ai bond UE.

Tra gli interventi più efficaci, si segnalano quelli del deputato M5S Raphael Raduzzi e del senatore della Lega Alberto Bagnai.

Il primo ha chiesto di sapere cosa ne sarà della discussione “esaustive” che potrebbe aprirsi in Consiglio quando si decideranno i pagamenti intermedi agli Stati membri. Ma Gentiloni, sottolineando la criticità dell’aspetto, non è andato oltre una evasiva risposta. A questo proposito ci sarà da attendere poco: sarà infatti un apposito regolamento a disciplinare la vicenda e le preoccupazioni non mancano.

Il secondo ha sfidato Gentiloni su alcuni aspetti tecnici. Riguardo lo status di creditore privilegiato della Commissione, e quindi l’eventuale minor tasso di un Btp con la stessa garanzia, il Commissario ha risposto che “è discutibile che ci sia tale status”, in ogni caso è un problema che non si pone non essendoci alcun rischio di ristrutturazione del debito. Allora vien da chiedersi cosa mai prezzeranno i mercati nello spread BTP/Bund, forse il rischio della caduta di un asteroide sull’Italia? Non pervenuta nemmeno la risposta sul rischio – paventato ieri da alcuni analisti citati dal Sole 24 Ore – di una eventuale minore domanda (quindi tassi più alti) per i titoli italiani soggetti dal prossimo anno alla concorrenza di un grande emittente come la UE.

A proposito del Mes, Gentiloni ha incredibilmente sostenuto l’assenza di condizioni macroeconomiche, portando a sostegno l’avvenuta modifica di un regolamento. Peccato che si tratti di un regolamento delegato (877/2013 che interviene sull’applicazione del monitoraggio previsto dall’articolo 10 del Regolamento 473/2013) che riguarda solo la reportistica a carico degli Stati che riceveranno i prestiti dal Mes con la linea Pandemic Crisis Support. Mentre, come spiegato già il 4 luglio ai nostri lettori, il regolamento 472/2013 che prevede tutti i meccanismi di sorveglianza ed eventuali misure correttive, è rimasto immutato. Così come nulla è cambiato nel Trattato istitutivo del Mes. Ovviamente tutti i giornali hanno ripreso l’affermazione di Gentiloni senza andare a controllare di cosa stesse parlando.  Alla richiesta di una spiegazione circa una maggiore preferenza degli Stati membri verso il Sure, trascurando il Mes, il Commissario ha detto che lui risponde solo del Sure, un progetto di cui va fiero

Del resto, si sa che “ogni scarrafone è bello a mamma sua”.

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