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Tutte le conseguenze del rallentamento cinese analizzate dall’Economist

Quali saranno gli effetti non solo a Pechino della frenata cinese secondo il settimanale The Economist

I mali della Cina non si fermano in Cina, ma si riverberano inesorabilmente nel resto dell’economia globale interconnessa. È quanto emerge da un recente approfondimento dell’Economist che mette in luce le principali conseguenze nel resto del mondo del rallentamento cinese e ne illustra le cause.

Pechino in sofferenza.

Svanita l’illusione di un rimbalzo dopo la funesta parentesi del Covid, l’economia cinese arranca, con una crescita molto debole per di più piagata da un mostro chiamato deflazione. Ma nell’odierno sistema globale interconnesso, i mali della Cina non restano in Cina, essendo destinati a riverberarsi in tutti gli angoli del pianeta.

Trattandosi della seconda economia mondiale, la sofferenza di Pechino produce inesorabilmente conseguenze sulle fortune economiche del mondo, nel senso che la sua crescita esangue influisce direttamente sulla crescita degli altri Paesi. Famiglie e imprese cinesi acquistano meno beni sul mercato, con conseguenze sia sui produttori di questi beni sia sulla platea dei consumatori del resto del mondo.

Conseguenze sul mercato delle commodities.

Il problema si presenta particolarmente grave per gli esportatori di commodities. La Cina infatti consuma un quinto di tutto il petrolio prodotto a livello globale, metà del rame, del nickel e dello zinco e più di tre quinti del ferro.

La crisi del settore immobiliare cinese significa minori importazioni di questi materiali, con effetti drammatici per Paesi come lo Zambia, le cui esportazione di rame e di altri metalli in Cina rappresentano il 20% del suo Pil, o per l’Australia, grande fornitore di carbone e ferro. Pochi giorni fa l’australiana BHP, che controlla le più grandi miniere del mondo, ha riportato i profitti più bassi degli ultimi tre anni.

Occidente in fibrillazione.

In Europa è la Germania a soffrire di più: la domanda debole dei suoi prodotti da parte della Cina è uno dei motivi per cui l’economia tedesca si è contratta o è andata in stagnazione negli ultimi tre trimestri.

Ma, considerati i forti legami economici intrattenuti con Pechino, è l’intero Occidente ad essere coinvolto: basti pensare che fino al 2022 le duecento più grandi multinazionali americane, europee e giapponesi piazzavano in Cina il 13% dei propri prodotti, pari a 700 miliardi di dollari. A tremare in particolare sono Tesla e Qualcomm, che realizzano in Cina rispettivamente un quinto e due terzi delle proprie vendite.

Se il rallentamento cinese dovesse trasformarsi in un’implosione, un forte malessere si diffonderebbe in tutta l’America, l’Europa e il Giappone, le cui esportazioni in Cina rappresentano tra il 4 e l’8% di tutto il business delle società quotate in borsa.

Effetti collaterali.

Ma, come è emerso dalle recenti revisioni delle stime di crescita globale da parte dell’Fmi, a parte la Cina le altre economie non sono messe così male. Spicca in particolare il dato degli Usa, che crescono a un ritmo tambureggiante di quasi il 6%.

Viste in questo contesto, le sofferenze della Cina potrebbero addirittura rappresentare un sollievo per i consumatori del resto del mondo, causando una ridotta domanda delle principali commodities con il conseguente abbassamento dei prezzi. Ciò potrebbe alleviare la pressione inflazionistica e togliere dagli impicci la Federal Reserve e le altre Banche centrali.

Worst-case scenario.

Ma cosa succederebbe se l’economia cinese collassasse? Se la bolla immobiliare esplodesse sarebbero i mercati finanziari mondiali a subirne gli effetti. Come ha mostrato uno studio della Bank of England del 2018, se la Cina entrasse in depressione, ne risentirebbero immediatamente i prezzi degli asset globali che precipiterebbero, al contrario delle principali valute del mondo ricco, a seguito della corsa degli investitori ad accaparrarsi asset più sicuri. Secondo la Bank of England il Pil britannico si contrarrebbe di oltre un punto.

La decrescita cinese significherebbe meno investimenti esteri e prestiti in arrivo da quel Paese. Dopo essere diventata nel 2017 il principale creditore a livello globale, Pechino con tutta probabilità taglierebbe con l’accetta i suoi maxi progetti come quelli inclusi nel pacchetto della Belt and Road Initiative, che proprio quest’anno entra nella sua seconda decade.

Quale via d’uscita?

Gli occhi del mondo sono dunque puntati sulle prossime mosse del Partito comunista cinese. Le misure di soccorso varate nelle ultime settimane, a partire dal ritocco all’ingiù del tasso d’interesse, potrebbero non bastare per risollevare le sorti del Paese e con esso del resto del mondo.

Come ha rilevato su queste colonne il sinologo Francesco Sisci, potrebbe rivelarsi necessaria una terapia shock, ossia un ripensamento complessivo del modello di crescita cinese che passi attraverso riforme della stessa politica, la cui presa totale sull’economia ne comprime le potenzialità.

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