Il flop, al di là di ogni previsione, dei recenti referendum su tematiche del lavoro ha suscitato i commenti più svariati. Nessuno di questi commenti, peraltro, si è posto la domanda di fondo che ci si sarebbe dovuti chiedere: qual è l’immagine di azienda che ha motivato i promotori dei referendum? Gli oppositori dei referendum, del resto, hanno una concezione diversa di che cosa sia un’azienda, rispetto a quello che frulla nella testa del Segretario della CGIL Landini? Non mi sembra. Se facciamo mente locale non avremo difficoltà a renderci conto che tutti coloro che sono coinvolti nel mondo del lavoro tendono a condividere la stessa idea di impresa.
Vediamo dunque che cosa è sfuggito alla percezione di chi ha promosso i referendum e, d’altra parte, anche alle mappe cognitive di chi ai referendum si è opposto. Nel mondo del lavoro si continua ancora a pensare che nell’azienda siano costretti a convivere e a scontrarsi due componenti fondamentali: la proprietà e la forza lavoro. Capitale e forza lavoro hanno rappresentato le componenti esclusive del sistema aziendale sino agli anni settanta dello scorso secolo. Il fatto è che, a partire dagli anni settanta dello scorso secolo, la “forza lavoro” è stata progressivamente rimpiazzata dalla professionalità. Perfino il facchino (tradizionalmente fornito di braccia robuste) ha visto il suo lavoro divenire sempre meno pesante grazie all’aiuto dei “muletti” e ai montacarichi che, d’altra parte, richiedono specifiche competenze acquisibili tramite formazione mirata da certificare attraverso procedure ad hoc.
L’assenza della componente “professionalità” nelle mappe cognitive dei nostri operatori aziendali ha una serie di conseguenze negative. Innanzi tutto si tende ad illudersi che le risorse umane siano facilmente sostituibili e rimpiazzabili, l’unica cosa che conta sarebbe la variabile finanziaria. Pagando il giusto prezzo di mercato ci si illude che le risorse umane necessarie siano sempre a disposizione. Il fatto è che, se la forza lavoro non qualificata è facilmente rintracciabile, il tecnico professionalmente qualificato deve essere “creato”, cioè formato, prima di poter essere impiegato. La creazione, cioè la formazione di personale professionalmente preparato richiede tempi lunghi e una attenzione lungimirante. La assenza della componente “professionalità” nelle mappe cognitive degli operatori aziendali porta a sottovalutare la necessità di aggiornamento delle risorse umane. Purtroppo è noto che una buona parte (più del 50%) delle risorse dei fondi inter-professionali dedicate all’aggiornamento non viene spesa. Se si fosse consapevoli dell’importanza della professionalità dubito che ci si lascerebbe sfuggire tutte queste risorse.
L’impatto più pesante della assenza della componente “professionalità” nelle mappe cognitive dei nostri operatori aziendali si esplica nella governance aziendale. I sindacati si fanno portavoce degli interessi delle maestranze non qualificate e rifiutano di farsi carico delle istanze dei professionals. La vicenda dei “quadri” è emblematica. Alla fine del secolo scorso, dopo una vicenda tormentata, la categoria dei “quadri” è stata introdotta nell’art. 2095 del Codice Civile. Orbene nessun sindacato riconosce a questa categoria la dignità di una rappresentanza autonoma nel suo seno. Di fatto il sindacato si fa cinghia di trasmissione degli interessi di una categoria che nella realtà non esiste più: la manovalanza non qualificata. Non c’è da meravigliarsi se gli iscritti al sindacato si identificano sempre più con pensionati che partecipavano alla vita aziendale quando la professionalità era un optional e se l’attività sindacale è prevalentemente un business riconducibile ai CAF.
La prospettiva dei professionals non ha spazio nella governance aziendale. Questa assenza è aggravata dalla nostra cultura giuridica. L’articolo 2095 del Codice Civile articola le categorie di dipendenti in dirigenti, quadri, impiegati e operai. La giurisprudenza definisce il dirigente come l’alter ego dell’imprenditore, una sorta di uomo di fiducia dell’imprenditore che, tra le righe, è concepito come imprenditore-proprietario.
Di nuovo la professionalità non ha cittadinanza nella mappa cognitiva dei nostri giudici del lavoro.