skip to Main Content

Perché Trump minaccia il cuore produttivo della Germania

L'analisi dell'editorialista Guido Salerno Aletta sui rapporti fra Stati Uniti e Germania

La Germania non è solo una grande esportatrice di merci, ma anche di capitali, nella misura in cui non aumenta né i consumi né gli investimenti interni, che anzi sono crollati nel 2018 ad appena il 19.7% del pil, mentre sono del 44,2% in Cina, del 23,2% in Francia, del 24,6% in Giappone e del 20,2% negli Usa.

L’andamento degli investimenti interni tedeschi è ancor più paradossale, visto che sempre nel 2018 il tasso di risparmio cinese è stato del 45,4% del pil, quello francese del 21,9%, quello giapponese del 28,4%, e quello statunitense del 17,2%. Il risparmio tedesco è stato invece pari al 27,9% del reddito, con un differenziale di ben 8,2 punti di pil superiore agli investimenti interni.

La percentuale di questi ultimi sul pil si è costantemente ridotta negli anni, rispetto al 30% registrato nel 1980 e alla media di oltre il 23% registrata negli anni successivi alla Riunificazione. La Germania non vuole investire all’interno: non solo per ragioni demografiche ormai consolidate, ma soprattutto per non dover ricorrere a nuova immigrazione. Accompagna così il declino del numero dei suoi abitanti, che considera ineluttabile, programmandosi un futuro da rentier.

Poiché la sua bilancia commerciale è la migliore al mondo in valori assoluti, essendo quest’anno pari a 346,8 miliardi di dollari rispetto ai 194,5 miliardi registrati dal Giappone ed ai 166,7 dalla Cina, diviene anche il principale esportatore di capitale. Gioca anche il differenziale dei tassi di interesse: gli investitori tedeschi preferiscono così impieghi ad alto rendimento all’estero rispetto a quelli interni, mentre molti risparmiatori europei sottoscrivono Bund anche se hanno rendimenti negativi, ritenendo che la Germania sia l’unico porto sicuro all’interno dell’Eurozona. Si accollano così buona parte dell’onere della riduzione del debito pubblico tedesco, sgravandone i contribuenti: il risultato è che nei primi sei mesi di quest’anno, il bilancio delle PA tedesche ha registrato un avanzo di 48,1 miliardi di euro.

La Germania ha fatto dell’euro uno strumento di straordinaria tutela del suo modello produttivo export-led, dentro e fuori l’Europa. Il riequilibrio all’interno dell’Unione, attraverso un sistema di trasferimenti a suo carico, è impensabile. I vincoli posti ai bilanci pubblici bloccano anche gli investimenti che potrebbero portare ad una migliore crescita, sono inibiti dal Fiscal Compact.

Il Presidente americano Donald Trump chiede con insistenza un riequilibrio delle partite commerciali: verso il Messico ed il Canada, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, la Germania. L’America non può continuare ad essere il mantice che alimenta a debito la crescita mondiale. La Cina non aumenta le sottoscrizioni dei titoli del Tesoro americano, il Giappone ne vende, la Russia ha liquidato le sue posizioni, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo non hanno più petrodollari da reinvestire.

L’America ha bisogno di un dollaro in salute, per raccogliere i capitali che servono a coprire le emissioni di Treasury ed il disavanzo commerciale. Ora, c’è la minaccia di imporre un dazio del 25% sulle importazioni di auto: visto che un nuovo Plaza Accord è impossibile, si minaccia direttamente la distruzione del cuore produttivo della Germania. E’ sicuramente una mossa che ha presa sull’elettorato americano, in vista delle elezioni di mid-term: quello sarà il vero giro di boa. Dopo, qualunque sarà il risultato, c’è solo l’imprevedibile.

Back To Top