Pare che il cosiddetto Trattato del Quirinale vada avanti speditamente. Anche in Francia lo chiamano così, in onore di Mattarella, ma la denominazione più corretta è “trattato di cooperazione bilaterale rafforzata tra Italia e Francia”. Sull’accordo e sull’operato dei gruppi di lavoro si è sempre saputo poco, quasi nulla, ma attualmente alcune bozze del documento starebbero circolando e alcuni quotidiani hanno lanciato l’allarme.
Tra le parti – dice Carlo Pelanda, economista, più volte consulente dei governi italiani tra prima e seconda Repubblica – “c’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante: la Francia sa cosa vuole, l’Italia no”. O meglio: alcuni italiani lo sanno benissimo. Il fatto è che la firma sancirebbe “un’auto-annessione alla Francia, industriale e strategica, edulcorata ma sostanziale” spiega Pelanda. A tutto campo: industria, confini, energia, difesa. Un errore che l’Italia pagherebbe caro e che Draghi potrebbe non essere intenzionato a commettere. Il condizionale, per ora, rimane d’obbligo.
Adesso sul Trattato del Quirinale sappiamo qualcosa in più; di che cosa parliamo?
Dei leak messi in circolazione da qualcuno che lavora alla Farnesina. Alcune bozze sono più dettagliate, altre meno. Il grado di segretezza che c’è intorno a questo trattato è notevole. Se non fosse una cosa molto reale e preoccupante, sembrerebbe uno scherzo.
Mattarella è il primo difensore del trattato. Non c’è molto da scherzare.
Prendiamo la parte macro: che senso ha oggi firmare un trattato bilaterale a 360 gradi con la Francia in un’Europa dove l’Italia e le altre nazioni avrebbero semmai l’interesse opposto, quello di depotenziare il trattato franco-tedesco dell’Eliseo che guida l’Europa dal 1963?
Lo stesso che è stato aggiornato ad Aquisgrana nel 2019.
Proprio quello. Se due paesi firmano un trattato selettivo e creano una situazione asimmetrica, frammentano ulteriormente l’Unione. C’è già il gruppo di Visegrád che lo sta facendo.
Occorre qualcuno che si assuma la responsabilità dell’iniziativa europea, si potrebbe obiettare.
C’è una cultura politica e diplomatica che dice proprio questo. La tesi non è del tutto irrealistica. Ma così si spacca l’Europa. Piuttosto Francia, Germania, Italia e Spagna firmino un trattato di cooperazione rafforzata su certe linee di approfondimento dell’Ue. È un altro metodo.
Invece Macron insiste. Mattarella anche. Vogliono questa firma.
Aspetto di vedere cosa farà la Germania. Magari Scholz dirà sì, salvo poi fare una guerra sotterranea. Berlino non sta rispettando per nulla l’adeguamento del Trattato dell’Eliseo fatto ad Aquisgrana. Soprattutto nei protocolli più importanti, quelli industriali. I tedeschi stanno dando a Parigi solo qualche zuccherino, come la brigata transfrontaliera. Una presa in giro.
Cosa si deve fare in Europa?
Convergere sulle sfide chiave: quella climatica, quella geopolitica verso la Cina. Togliendosi dalla testa la federazione, un progetto che non può esistere.
Lei ha visto le bozze. Che impressione ne ha ricavato?
Ho visto le bozze e qualche carteggio. All’occhio attento non sfugge che i tecnici francesi mostrano di sapere benissimo cosa vogliono, mentre quelli italiani sono spaesati, cercano di fare controproposte che sono deboli perché prive di prospettiva. C’è un’asimmetria palpabile e imbarazzante.
Lo scenario peggiore?
Quello di sancire un’auto-annessione alla Francia, industriale e strategica. Edulcorata ma sostanziale. E poi c’è un nodo politico. Si può firmare un trattato così senza discuterlo in Parlamento? Sicuramente le Camere devono ratificarlo, altrimenti non entra in vigore.
E se veniamo ad anni più recenti?
Nel 1993 la strategia cambiò, almeno per quello che ci riguarda. L’obiettivo francese diventò quello di conquistare l’Italia direttamente, sul piano economico e finanziario, anche per contrastare lo strapotere tedesco.
Draghi secondo lei come la pensa e cosa vuol fare?
Non posso saperlo, la mia è solo una scommessa. Non credo che Draghi voglia firmare quel trattato. Prenderà tempo. Al G20 abbiamo visto il suo modus operandi: i fautori della decarbonizzazione nel 2060 volevano dieci anni in più per fare a modo loro, Draghi non ha fatto una piega e ha messo nell’accordo il tornante di “metà secolo”.
Metà secolo è il 2050, ma è anche altro, il tempo che serve per mettersi d’accordo su altre leve. Sarei molto sorpreso se il pragmatico Draghi facesse dell’Italia un ascaro della Francia. Soprattutto, non tenendo conto delle relazioni con la Germania, che per noi sono più importanti.
Draghi potrebbe opporre a Macron un netto rifiuto?
No, perché c’è il ricatto francese sul debito italiano. Il presidente della Bce ha un potere essenzialmente basato sulla sua reputazione, e Christine Lagarde ne ha poca. Però sul piano formale ha il potere del calendario.
Traduzione?
Il 28 ottobre Lagarde ha detto che il programma Pepp di acquisti straordinari finirà a marzo 2022. Un banchiere centrale serio avrebbe simultaneamente annunciato l’attivazione di un programma allo studio della Bce che si chiama App (Asset purchase program) per continuare una parte degli acquisti, onde evitare uno shock per i paesi più indebitati. A noi questo mancato annuncio è costato il passaggio dello spread da 100 a 130, una mini-crisi istantanea di fiducia sul debito italiano. Proprio nel momento in cui Draghi e Franco comunicano uno scenario dorato per l’Italia e il premier si appresta a presiedere il G20.
Un errore tecnico di Lagarde.
Non si può fare un processo alle intenzioni. Ma un dubbio ce l’ho e le coincidenze in politica non esistono.
Cosa direbbero gli Usa se l’Italia firmasse il trattato?
Washington deve concentrare la sua attenzione su altri teatri e vedrebbe bene una convergenza di Italia e Francia per il presidio dell’Africa, dove il Niger è la vera frontiera meridionale dell’Ue. Però dovrebbe trattarsi di un accordo militare sotto l’ombrello Nato. Non altro.
Lei nel 1993 era consigliere del ministro degli Esteri Andreatta. Che cosa ricorda?
Mi arrivò sul tavolo una bozza di trattato bilaterale Italia-Francia. C’era una lista dettagliata di aziende e di banche passibili di fusioni.
Siamo ancora allo stesso punto. È il passato che non passa.
Solo che allora Andreatta disse: non scherziamo. Gli Stati Uniti erano molto più forti, noi al tempo di Ciampi avevamo un peso maggiore, i francesi avevano altri problemi e non riuscirono a fare l’affondo. Fabius ci riprovò qualche anno dopo con Finmeccanica, grazie anche alla complicità di alcune élite italiane. Riuscimmo a sventare il tentativo, grazie ad alcune contromosse e a qualche compromesso.
Perché sul Trattato del Quirinale si sa così poco?
Palazzo Chigi ha più volte fatto capire che è meglio che la stampa non si occupi di questa materia. Infatti lo fanno in pochi.
Vietato disturbare il manovratore?
Può anche voler dire che Draghi intende giocare da solo, come suo stile. Chissà, magari perché non si fida di qualcun altro.
Nel 2018 venne insediato il gruppo di lavoro. Sylvie Goulard, Pascal Cagni e Gilles Pécout per la parte francese, Paola Severino, Franco Bassanini e Marco Piantini per quella italiana. Cosa le dicono questi nomi?
Legioni d’onore. Ma dallo scorso agosto se ne occupa direttamente il ministero degli Esteri, dove qualcuno ha fatto filtrare alcune informazioni ritenendo che la situazione sia molto preoccupante. Dobbiamo ringraziare la sua iniziativa. I dettagli fondamentali però non li sappiamo.
Perché dice questo?
Perché i conti non tornano. Fino a poco fa si pensava che il trattato comprendesse due o tre materie al massimo, per attutire lo scontro con la Francia, invece non è così. Ancora: la pressione di Macron è aumentata, e sembra proporzionata alla sua disperazione. Poi c’è il fattore Germania: possiamo firmare senza che a Berlino ci sia il nuovo governo? Infine il “partito francese” in Italia, la cui lista è molto più lunga di quella delle legioni d’onore.
Quindi?
È un momento di difficoltà, che induce Draghi ad essere molto prudente e riservato.
Se alla fine firmiamo?
Sarebbe una resa disastrosa. Ma potrebbe essere anche una strategia difensiva estrema.
Vale a dire?
Firmando tranquillizziamo Macron, e intanto vediamo se verrà rieletto; poi rinviamo la ratifica, come è stato per il Trattato di Caen. Anche questa è una strada. Ma è più pericolosa della prima.
(Estratto dell’intervista del Sussidiario a Pelanda)