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Vi spiego gli effetti finanziari e geopolitici della transizione energetica

Fatti, scenari e analisi tra economia, finanza e geopolitica della transizione energetica. Il commento di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos.

Un malfunzionamento è il guasto di un componente. Basta sostituirlo e tutto si aggiusta. Una disfunzione è un difetto di processo. Qui non basta sostituire qualche pezzo. Bisogna tornare alla lavagna e rivedere il disegno, perché il problema è strutturale.

La tesi dell’inflazione transitoria si basa da una parte sull’idea che la spinta monetaria e fiscale alla domanda si attenuerà gradualmente e dall’altra sulla tesi che le strozzature dell’offerta sempre più evidenti in tutti gli angoli del mondo sono dei semplici malfunzionamenti temporanei e non delle disfunzioni strutturali.

Avremo molte occasioni per seguire le questioni legate alla domanda. Oggi proviamo a fare qualche considerazione sull’offerta. I mercati finanziari non sono molto preparati ad affrontare questo aspetto. Quasi quarant’anni di politiche dell’offerta, di progresso tecnologico e di demografia favorevole hanno prodotto abbondanza di materie prime, massima fluidità dei flussi commerciali e disponibilità di manodopera a basso costo. Soddisfatti e tranquilli sul lato dell’offerta, i mercati hanno dedicato gran parte delle loro attenzioni e preoccupazioni ai problemi della domanda, depressa dalle politiche dell’austerità e dalle svalutazioni interne che hanno compresso i consumi privati e gli investimenti pubblici.

Oggi, con l’austerità che sbiadisce nel ricordo e con i consumi privati e gli investimenti pubblici di nuovo al centro delle politiche fiscali, riscopriamo che i problemi possono venire anche dal lato dell’offerta, soprattutto se questa è messa sotto stress da un nuovo contesto geopolitico e dal nuovo aggressivo dirigismo dei governi.

Prendiamo l’energia. Nella storia non c’è mai stata tanta disponibilità di energia a buon mercato come oggi. Se negli anni Settanta, già colpiti dai due shock energetici del 1973 e 1979, era previsione di consenso che le risorse fossili si sarebbero gradualmente ma inesorabilmente esaurite, oggi sappiamo che il mondo galleggia su un mare immenso di gas, di petrolio e di carbone. Sappiamo anche, con più di 60 anni di esperienza, che il nucleare è gestibile.

La transizione energetica verso le rinnovabili, una scelta su cui è stato investito un enorme capitale politico e che è da considerare irreversibile, ha portato però a uno smantellamento accelerato del nucleare e al taglio degli investimenti nel fossile (di cui abbiamo visto i primi effetti nello shale oil) che prenderà velocità nei prossimi anni grazie al coinvolgimento delle banche e della finanza. La decisione strategica è di tagliarsi i ponti del fossile alle spalle per essere sicuri di andare avanti a tutti i costi verso le rinnovabili.

Questa impresa alla fine avrà successo e non provocherà, come alcuni temono, una crisi energetica generalizzata nella fase di transizione. Il percorso sarà tuttavia accidentato e il mondo sarà nel frattempo vulnerabile. Un inverno freddo o qualche settimana senza vento o senza sole porteranno a interruzioni di servizio e razionamenti. Per limitarli ci si dovrà dotare di grandi riserve di gas naturale, aumentando la domanda di una materia prima su cui dall’altra parte si vogliono tagliare gli investimenti.

Ci sarà anche una vulnerabilità geopolitica. Se i paesi occidentali taglieranno drasticamente investimenti e produzione di fossili in casa loro, aumenterà la forza contrattuale dei paesi, in molti casi instabili o ostili, che continueranno a produrre. Ci sarà una certa vulnerabilità geopolitica anche nelle rinnovabili se si installeranno grandi impianti, come ha in mente l’Europa, nel Sahara e nel Sahel.

Un secondo fronte da tenere d’occhio, nei prossimi anni, sarà quello del lavoro. Anche qui, come per l’energia, c’è sulla carta un’offerta abbondante che però stenta a combinarsi con una domanda che pure è piuttosto aggressiva. C’è chi comincia ad avanzare la tesi che i lockdown da una parte e la crescente spinta a creare un reddito universale a spese dei governi dall’altra stiano facendo riconsiderare in alcune persone la centralità del lavoro. Le aziende, dal canto loro, constatano che proporre retribuzioni più alte per trovare manodopera dà meno risultati di una volta. A questo va aggiunta la demografia che, con la contrazione della forza lavoro già evidente in alcuni paesi asiatici (tra cui la Cina), ne aumenterà il potere contrattuale.

Il terzo fronte di stress sul lato dell’offerta, la crisi della filiera produttiva unica globale, è l’unico con cui i mercati hanno già una certa familiarità. Il processo era già stato avviato da Trump e Biden non lo ha in nessun modo interrotto. La separazione delle filiere tra America, Europa e Asia non coinvolgerà solo la tecnologia, come stiamo vedendo nei semiconduttori, ma riguarderà anche l’industria di base come sarà evidente quando l’Europa introdurrà la tassa sui prodotti dei paesi energeticamente non corretti provenienti dall’Asia.

I tre fronti di stress che abbiamo indicato metteranno granelli di sabbia nella grande macchina produttiva globale e renderanno meno fluidi i flussi che la percorrono. Provocheranno un innalzamento dei costi che verrà scaricato a valle o, in certi casi, andrà a comprimere i margini. L’inflazione sarà però endemica e irregolare e non assumerà i tratti minacciosi degli anni Settanta.

Come è stato notato, le due teorie più diffuse sull’inflazione, quella monetarista e quella basata sulla curva di Phillips, sono inadeguate a spiegare quello che sta succedendo. Ora che stiamo uscendo dal bozzolo della ripresa forzata ed entrando gradualmente in una nuova normalità ci accorgiamo che dal polverone che si abbassa emerge un mondo diverso da quello che conoscevamo.

I problemi dal lato dell’offerta, d’altra parte, creeranno anche grandi opportunità. La transizione energetica comporterà enormi investimenti. La trasformazione del mercato del lavoro darà una forte spinta alla digitalizzazione, alla robotica e all’intelligenza artificiale. La creazione di filiere produttive separate, dopo una difficile fase iniziale, porterà a un vistoso aumento dell’offerta complessiva. Insomma, alla fine l’offerta sarà su tutti i fronti più che sufficiente e le tensioni inflazionistiche verranno mantenute sotto controllo. Se di disfunzioni si tratta, dunque, e non solo di malfunzionamenti, il sistema sarà in grado di correggerle.

Dall’esperienza degli ultimi decenni le banche centrali hanno imparato che non si risponde ai problemi dell’offerta alzando i tassi, che sono adatti piuttosto a governare la domanda. I timori che serpeggiano nei mercati nel vedere concretizzarsi l’inizio della normalizzazione monetaria sono eccessivi. Le banche centrali saranno molto caute e continueranno a privilegiare le esigenze della crescita rispetto all’inflazione. Il ricambio al vertice della Fed (che potrebbe coinvolgere anche Powell) conferirà al board un aspetto ancora più espansivo.

I mercati hanno colto nell’aria l’avvicinarsi della fine della fase dell’emergenza. Stanno uscendo dall’incubatrice e osservano il nuovo mondo con uno sguardo più equilibrato. I tassi sono leggermente più alti e la crescita si è un po’ raffreddata. Un periodo di consolidamento e di ambientamento è dovuto. La fase delle cadute di un giorno seguite immediatamente da nuovi massimi è finita. Non per questo si deve aprire una fase di correzione particolarmente significativa. Nel caso questa si verifichi, sarà, pandemia permettendo, un’occasione di acquisto.

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