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Tassa extraprofitti, perché i titoli di Stato spavantano il governo: un quarto del debito pubblico in mano alle banche

Che cosa c'è di vero e di farlocco negli articoli recenti del Sole 24 ore su banche, imposta straordinaria sui presunti extraprofitti e impatto sui titoli di Stato.

C’è un aspetto che il governo di Giorgia Meloni, forse, ha sottovalutato nella partita sulla tassa a carico delle banche per gli extraprofitti. Un quarto del debito pubblico italiano – ecco la questione – è in mano agli istituti di credito del Paese: stiamo parlando di quasi 690 miliardi di euro sul totale di 2.815 miliardi (dato di maggio 2023).

I big dell’industria bancaria non lo stanno sbandierato apertamente, ma nelle interlocuzioni riservate con il Tesoro il tema dell’acquisto di bot e btp da parte delle banche è stato affrontato; non tanto per far emergere il rischio di un rozzo ricatto (che peraltro si rivelerebbe un autogol per le stesse banche), quanto per la necessità di non penalizzare, anche agli occhi dei mercati finanziari internazionali, una fonte insostituibile di liquidità per le casse pubbliche nell’ambito delle emissioni dei titoli di Stato.

Insomma, i banchieri italiani non sono intenzionati a dare un aut aut a Palazzo Chigi, ma, semmai, stanno cercando di far aprire gli occhi ai “falchi” dell’esecutivo: colpire le banche, questo il ragionamento, non conviene a nessuno. Per incassare al massimo 2 o 3 miliardi di euro – si interroga un esperto del mondo bancario – conviene destabilizzare un settore che garantisce, con sottoscrizioni a colpi di decine di miliardi, il ministero dell’Economia ogni volta che si rinnova il debito pubblico in scadenza?

La quota di obbligazioni pubbliche in mano alle banche (24,5%) è in lieve calo rispetto a fine 2021, quando la percentuale di bot e btp detenuti corrispondeva al 25,8%, con circa 689 miliardi su 2.670 miliardi totali. Gli altri grandi apporti finanziari per lo Stato arrivano dalla Banca d’Italia e dai fondi stranieri (cui spetta il record di acquisti): Via Nazionale oggi detiene 726 miliardi, mentre all’estero sono collocati bot e btp per complessivi 746 miliardi.

Vale la pena sottolineare che negli ultimi due anni, si è registrata una “fuga” degli stranieri che a fine 2021 avevano “in pancia”, con 805 miliardi, una quota debito pubblico tricolore superiore al 30%. In meno di due anni i grandi fondi internazionali hanno disinvestito quasi 60 miliardi di euro scendendo al 27% del totale e il maggior soccorso è arrivato da Bankitalia che, al contrario, ha incrementato la sua fetta di debito di circa 138 miliardi, passando dal 22% al 26%. Anche le famiglie, il cosiddetto settore “retail”, hanno cominciato ad apprezzare di più il debito italiano, probabilmente incoraggiati dai maggiori rendimenti garantiti dal Tesoro, in linea con l’aumento del costo del denaro deciso dalla Banca centrale europea, portato in 12 mesi da zero al 4,25%: i piccoli risparmiatori, oggi, sono titolari di 307 miliardi, pari all’11% del totale, mentre a fine 2021 le obbligazioni pubbliche nei portafogli delle famiglie si attestavano a 227 miliardi (8,5%). Un’altra miniriduzione si è poi registrata per i fondi d’investimento italiani: la loro quota è calata di oltre 13 miliardi, da 360 miliardi a 347 miliardi, con la percentuale scesa dal 13,5% al 12,3%.

Sembra invece marginale la questione dei maggiori profitti su bot e btp sollevata in questi giorni. Secondo fonti riservate del Tesoro, sul totale dell’incremento del margine d’interesse nel 2022 rispetto al 2021 (circa 16 miliardi di euro), l’apporto dei guadagni aggiuntivi garantiti dai titoli di Stato alle banche è, in termini percentuali, attorno allo zero virgola, poche centinaia di milioni di euro: molto poco, insomma. Ne consegue che la tassa sugli extraprofitti non colpirebbe più di tanto quello che le banche si portano a casa investendo sul debito pubblico: qualche decina di milioni di euro sui 2-3 miliardi complessivi stimati. Insomma, nessun allarme né rischi da questo punto di vista.

Di là dai dettagli tecnici e statistici, è evidente che il peso, anche politico, delle banche nella gestione delle casse statali non potrà essere ignorato nell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto che il consiglio dei ministri ha approvato, a sorpresa, lunedì 7 agosto. È assai probabile, insomma, che le ripercussioni sulle finanze pubbliche derivanti dalla norma contro le banche possano in qualche modo ispirare chi si appresta a redigere gli emendamenti al provvedimento d’urgenza. I rappresentanti delle banche hanno individuato le “colombe” soprattutto nelle file di Forza Italia: il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è il principale sponsor di correttivi che dovrebbero fortemente limitare l’impatto della stangata fiscale sugli istituti di credito. La norma non verrà stravolta nella sostanza, ma sarà significativamente limitata nella sua portata finanziaria con il gettito finale tagliato, forse, a poco più di 1 miliardo. Emergerà così, plasticamente, la natura populista di un intervento che appare sempre più figlio della ricerca del consenso politico e sempre meno generato da una affinata strategia per migliorare la gestione delle finanze pubbliche.

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