skip to Main Content

Perché la sentenza della Corte dei Conti del Lazio sui derivati di Stato è sacrosanta

L’analisi dell’editorialista Angelo De Mattia sulla sentenza della Corte dei conti del Lazio Si sta riflettendo sull’importante sentenza della Corte dei Conti del Lazio che non ha accolto l’accusa di danno erariale mossa dalla Procura a Morgan Stanley per circa 3 miliardi e per somme diverse a carico di alti dirigenti del Tesoro, fra i…

Si sta riflettendo sull’importante sentenza della Corte dei Conti del Lazio che non ha accolto l’accusa di danno erariale mossa dalla Procura a Morgan Stanley per circa 3 miliardi e per somme diverse a carico di alti dirigenti del Tesoro, fra i quali alcuni ex ministri, relativamente alla stipula di alcuni contratti in derivati chiusi anticipatamente negli anni 2011-12. La sconfitta della tesi accusatoria è netta e clamorosa: la Corte ha respinto le diverse richieste di risarcimento, assolvendo così tutti gli accusati, affermando il difetto di giurisdizione.

Ciò equivale all’aver statuito che sulla vicenda, che ha richiesto un lunghissimo periodo di approfondimenti, indagini, analisi e confronti, mobilitando stuoli di esperti e di legali, non si sarebbe dovuto indagare, bisognando valutare prima facie che si verteva in un campo che è sottratto alla giurisdizione della Corte. Insomma, come non detto.

Tale conclusione induce a riflettere anche sull’esigenza di meccanismi attivabili più tempestivamente per evitare che si debbano sostenere oneri rilevanti, oltre al peso delle accuse sui singoli soggetti, persone fisiche o giuridiche, oneri il cui primo fondamento viene dichiarato inesistente dall’organo giudicante, magari a distanza di anni. Ma non è soltanto per la mera pronuncia sul difetto di giurisdizione che la sentenza della Corte è particolarmente importante: è invece cruciale l’argomentazione a sostegno di tale pronuncia.

Il collegio giudicante afferma, infatti, che il giudice non può sostituire le proprie valutazioni a quelle che l’autorità amministrativa ha svolto nell’esercizio della propria discrezionalità: diversamente si lederebbe il principio della separazione dei poteri. In sostanza si deve ritenere che, laddove vi sia stato l’impiego di una discrezionalità tecnica in vicende come quella della stipula e della chiusura dei derivati da parte del Tesoro – ben lontane dalla ricorrenza del dolo o della colpa grave – non c’è spazio neppure per attivare procedimenti che abbiano di mira la dimostrazione di un danno erariale. Per di più, per valutare comunque l’ipotesi di un eventuale danno, bisogna porsi nella condizione del momento storico in cui questo sarebbe stato arrecato, insomma compiere una valutazione ex ante – nel caso specifico, della contrattazione tra le parti – non ex post.

Quanto alla posizione di Morgan Stanley, essa a differenza di quanto sostenuto dall’accusa non rientra nell’apparato organizzativo pubblico, per cui non può dirsi che sia esistito un rapporto di servizio tra la banca d’affari e la pubblica amministrazione, essendo la relazione tra questa e il Tesoro una relazione contrattuale sviluppata su un piano di parità. Dunque è ancora più arduo muovere l’accusa di danno erariale in relazione ai risultati della negoziazione. Del resto, le prassi internazionali in materia di negoziazione di derivati sono state osservate.

Da un lato, quindi, siamo in presenza di un soggetto, Morgan Stanley, controparte in un negozio giuridico complesso, ma senza alcun aggancio organizzativo e funzionale con il Tesoro; dall’altro, abbiamo l’affermazione dell’insindacabilità del merito delle scelte discrezionali dei funzionari pubblici. Soprattutto su quest’ultimo punto – che presuppone l’assenza ovviamente di comportamenti penalmente rilevanti – la decisione della Corte ha un’importanza enorme e si spera possa fare scuola per il futuro. Quando la promozione dell’accusa in questione è venuta alla ribalta, si sono moltiplicati i commenti di coloro che affermavano che nessun funzionario pubblico da allora in avanti avrebbe più firmato un contratto, stante il rischio che valutazioni a posteriori facciano scattare accuse e richieste di risarcimento danni per comportamenti che invece all’epoca in cui sono stati assunti erano pienamente legittimi.

Data la sentenza della Corte, all’opposto, la situazione si ribalta, nel senso non certo di favorire atteggiamenti permissivi e scorretti dei dipendenti pubblici, ma di valorizzare la loro autonomia e una corretta discrezionalità tecnica che li sottrae a contestazioni magari facili perché si conoscono gli eventi successivi che al momento dell’assunzione degli impegni erano solo oggetto di previsioni, che potevano verificarsi o non verificarsi. Inoltre, si era adombrata l’ipotesi di impatti negativi che si sarebbero potuti avere nei rapporti tra Tesoro, banche internazionali e mercati, a seguito di una eventuale pronuncia di condanna.

Da questo punto di vista, si può dire che il tempo e le risorse che sono state impegnate in questa causa sono stati, tutto sommato, per l’eterogenesi dei fini, molto ben impiegati. I derivati, come strumento di protezione dal rischio, sono fondamentali; è importante che essi assistano un’operazione principale e dunque non siano un mero contratto aleatorio, sganciato, appunto, da un oggetto da tutelare. Si può scegliere, nel comparto pubblico, di ricorrere a tale strumento o no.

Ma se si ammette una siffatta negoziazione, allora se ne devono osservare le regole, anche quelle sulle possibili chiusure anticipate del rapporto che possono andare a vantaggio dell’una o dell’altra parte contraente. Forse, un ritorno normativo sulla materia per meglio precisare e codificare non sarebbe inopportuno, tutt’altro. Intanto, è giusto confidare nella definitiva stabilizzazione dell’indirizzo che la Corte del Lazio ha giustamente deciso.

Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza

Back To Top