Per il presidente della Sassonia Michael Kretschmer, in corsa per una difficile rielezione nelle elezioni di domenica 1° settembre, il nuovo stabilimento di produzione di microchip di Dresda in joint venture con la taiwanese TSMC dovrà rappresentare una sfida contro il populismo che rischia di mettere ai margini una regione altrimenti dinamica dell’ex Germania Est. Già la chiamano Saxony Valley, scimmiottando con una buona dose di provincialismo la Valle tecnologica di Santa Chiara, che ha fatto la storia industriale di San Francisco: è il reticolo di medie e piccole imprese high-tech sorte nell’ultimo decennio su cui si appunta la speranza del riscatto economico sassone. Ma la Sassonia, oltre a essere già oggi il Land federale più sviluppato della Germania al di là dell’Elba, è stata anche nel suo passato comunista la punta di diamante tecnologica della Ddr. Qui il regime aveva concentrato le sue imprese innovative e i centri di ricerca che dovevano supportarle. Tra i capannoni di Dresda e le esposizioni di Lipsia si giocò anche l’ultima partita per la sopravvivenza della “potenza industriale” della Ddr. Una partita persa, che alla vigilia del delicato voto regionale (si vota contemporaneamente anche nella confinante Turingia) vale la pena di ricostruire.
C’era la folla delle grandi occasioni la mattina del 12 settembre 1988 nei saloni della fiera autunnale di Lipsia. I giornalisti delle testate nazionali e i volti noti della televisione di Stato. I dirigenti della fiera, tutti in ghingheri nei loro stazzonati vestiti grigi d’ordinanza. I papaveri più in vista del Politburo, con codazzo di portaborse e assistenti. Wolfgang Biermann, il direttore generale del prestigioso Kombinat Carl Zeiss di Jena, tutto paonazzo per l’emozione. E c’era anche lui, Erich Honecker, in quei giorni ancora capo incontrastato della Ddr.
Tutto quel bel mondo tedesco-orientale era stato convocato per un motivo molto semplice: la consegna di Biermann a Honecker del prototipo di un chip da 1 megabit. Sotto le luci dei riflettori televisivi e tra le bollicine effervescenti del famoso spumante Rotkäppchen (marchio fra i pochi a sopravvivere successivamente nello spietato mercato del capitalismo), la consegna del prezioso esemplare digitale avrebbe dovuto certificare il futuro roseo e vincente che ancora attendeva l’economia della Germania comunista. Grazie all’innovativa produzione di microelettronica, la Ddr avrebbe mantenuto anche negli anni a venire la sua posizione di prestigio all’interno del club dei 10 paesi più industrializzati del mondo, accanto agli Usa, al Giappone, all’Unione Sovietica e, naturalmente, all’odiata Germania capitalista.
Fuori dal cono di luce delle celebrazioni si svolgeva un’altra storia. In verità ci erano voluti 11 anni perché il Kombinat di Jena partorisse quel primo chip di memoria. Correva l’anno 1977, quando il sesto congresso del comitato centrale della Sed, il partito unico socialista della Ddr, aveva decretato l’accelerazione della produzione e dell’utilizzo della microelettronica nel paese. Non fu una scelta dettata da menti lungimiranti (in quegli stessi anni negli Stati Uniti erano già comparsi i primi personal computer, i telefax e Arpanet, la prima rete informatica di collegamento per computer), ma dall’osservazione preoccupata delle curve calanti degli indici di esportazione. Qualcuno, come il capo della commissione di pianificazione Gehrard Schürer, se n’era accorto per tempo: la Germania Est stava perdendo la sfida della rivoluzione tecnologica. Altri, come l’influente membro del Politburo Günter Mittag, avevano invece preferito non guardare in faccia la realtà: l’economia di piano non aveva retto l’impatto con i repentini cambiamenti industriali, con lo sviluppo impetuoso dei mercati finanziari internazionali, con le nuove teorie della produttività.
Il gap tecnologico e infrastrutturale con l’Occidente si accresceva di anno in anno: in California fioriva già l’epopea della Silicon Valley, la Germania dell’Est si rinchiudeva in un circolo vizioso di indebitamento e stagnazione. Era quel che accadeva anche negli altri Stati del blocco sovietico, con la differenza che a Berlino Est venne tenuta in piedi per più tempo la finzione della forza economica dell’altro Made in Germany.
Quando caddero Muro e regime, i numeri emersero impietosi: nel 1989 il debito estero accumulato era di 26 miliardi e mezzo di dollari, il disavanzo sulle partite correnti superava 12 miliardi. Il servizio del debito da solo costava 4,5 miliardi di dollari, pari a oltre il 60% dei ricavi annui dalle esportazioni. Solo per stabilizzare il debito con un programma di austerità sarebbe stato necessario ridurre il tenore di vita del 25-30%: il comunismo in terra prussiana era fallito.
L’errore di strategia industriale della Ddr fu esiziale: i manager economici del comitato centrale misero da parte all’inizio degli anni Settanta gli investimenti nella microelettronica e li concentrarono sulla produzione di macchinari industriali. Dieci anni dopo si accorsero che, senza microelettronica, non era più possibile costruire macchine competitive. Si invertì la rotta, ma era ormai troppo tardi. In quell’autunno di Lipsia del 1988 si celebrava in fondo il funerale della Ddr. Appena un anno prima della sua data ufficiale. Oggi politici locali e nazionali sperano che la Saxony Valley sarà capace di raccontare una storia diversa.