Con il “non tutte le tasse sono una tassa” del ministro Daniela Santanché si può ufficialmente dichiarare il “rompete le righe” per la pausa di ferragosto.
Troppo caldo, i social media manager sono distratti, magari sono temporaneamente sostituiti da qualche tirocinante alle prime armi e sui social si pubblicano post claudicanti già nella forma, figurarsi nella sostanza.
Meglio astenersi e rimandare tutto a dopo ferragosto. Che poi era il senso del comunicato del ministero del turismo apparso lunedì: per un’eventuale modifica della disciplina dell’imposta di soggiorno se ne riparla a settembre.
Ma ieri di buon mattino, la Santanché è intervenuta sui social e, pur concedendo al ministro tutte le attenuanti generiche e specifiche, non è possibile salvare nulla di quel post. Avrebbe fatto meglio a cancellarlo.
Se l’intento era quello di giustificare un prelievo a carico di un beneficiario di un servizio, il cui aumento servirebbe a “migliorare il servizio e rendere più responsabili i turisti che la pagano”, non serviva negare la natura di una tassa. Perché, in linguaggio tecnico, anche se la denominazione è “imposta di soggiorno”, il suo meccanismo di funzionamento è più vicino a quella di una tassa. Cioè il pagamento – coattivo o su base contrattuale – per un servizio divisibile chiaramente identificabile, erogato al singolo cittadino (per esempio, come la tassa rifiuti). Che senso ha dire che sarebbe meglio dire “tassa di scopo” anziché “tassa di soggiorno”? Tutte le tasse hanno generalmente uno scopo, cioè una specifica finalità. Anche quando sono prelevate coattivamente, a prescindere dall’effettiva fruizione del servizio.
Invece la Santanché si è incartata su se stessa, impuntandosi sulla tassa che non è una tassa o l’imposta che non è un’imposta, bruciando una tesi che ha un suo fondamento. Infatti, il sovraffollamento turistico in alcune città e luoghi di vacanza richiede l’erogazione di servizi aggiuntivi e il potenziamento di servizi esistenti, generalmente a carico delle amministrazioni locali, il cui costo è ragionevole ed equo porre a carico del beneficiario di quel servizio. Anche per lanciare un segnale verso i turisti: un bene per definizione a offerta limitata, come una località turistica, non può essere consumato “ad libitum”, senza che ci sia un prezzo a regolarne la domanda e compensare almeno il costo per l’ente locale.
Lo vogliamo chiamare imposta, tassa o corrispettivo oppure Ugo? Nella sostanza, cambia poco o nulla. Invece la Santanché ha deciso, con scarsa fortuna, di immolarsi sulla cattedra di diritto tributario.
È tempo di prendersi qualche giorno di ferie.