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Quale sarà davvero il contributo del Pnrr alla crescita?

Il punto sul Pnrr, fra seconda revisione in corso, inevitabili intoppi e giostra di previsione per l'impatto sul Pil. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

Il PNRR si avvia, a sorpresa solo per chi se n’è occupato leggendo i titoli dei giornali, verso la seconda revisione. La prima, condotta faticosamente in porto da Raffaele Fitto dopo circa un anno di interlocuzioni con la Commissione, non è stata evidentemente sufficiente per dipanare tutti i nodi di quell’enorme e ingarbugliata matassa lasciata in eredità al governo Meloni dai precedenti governi Conte 2 e Draghi.

L’origine del problema è sempre la stessa: complesse opere infrastrutturali come tronchi stradali o autostradali e ferroviari hanno dei tempi relativamente incomprimibili per il loro iter burocratico e per la loro realizzazione fisica, che mal si conciliano con le scadenze semestrali imposte da Bruxelles. Peraltro quando l’economia europea e italiana non era stata ancora impattata dalle conseguenze inflazionistiche e di strozzatura dell’offerta causate prima dall’affrettata corsa verso la transizione energetica e, poi, dalla crisi ucraina.

Per cui ora il malcapitato ministro Tommaso Foti, chiamato a sostituire Fitto, sarà costretto a fare l’ennesimo bagno di realtà e concordare con Bruxelles nuovi obiettivi per le tre ultime scadenze fissate a giugno e dicembre 2025 e giugno 2026. Scadenze a cui sono legati ben 284 obiettivi tra investimenti e riforme, sui 621 complessivi e 54 miliardi di ulteriori pagamenti per giungere ai 194 complessivi. Foti intende presentare la revisione entro la fine del mese di febbraio ma, in questi casi, presentare significa aver già preliminarmente concordato la fattibilità delle modifiche, in modo da ridurre al minimo i successivi tempi di discussione con i tecnici della Commissione. E sette settimane potrebbero non bastare.

Anche perché è in discussione il 46% degli obiettivi/riforme e del 27% dei pagamenti che decideranno del successo o dell’insuccesso del PNRR. Perché quanto fatto finora, con l’incasso di 122 miliardi, e altri 18 in arrivo con la rendicontazione della settima rata appena presentata a fine anno, è prevalentemente il risultato del conseguimento di obiettivi e riforme legati ad adempimenti legislativi e burocratici. Produrre carta è molto più semplice e rapido che aprire e chiudere cantieri. Di conseguenza, non è affatto escluso – anche se è una parola al momento off-limits – che tra pochi mesi di cominci a discutere di proroga del piano oltre la scadenza di giugno 2026. Per il semplice motivo che «ad impossibilia nemo tenetur».

Su questi conti grava anche l’incognita della differenza tra spesa effettiva (all’incirca 60 miliardi) e somme già incassate (140 miliardi con la settimana rata). La differenza è ovviamente finita a ridurre il fabbisogno finanziario del Tesoro. Per fare un esempio grezzo ma di immediata comprensione, è come se la banca ci avesse erogato un mutuo per la ristrutturazione della casa e, avendo effettuato solo una minima parte dei lavori, avessimo destinato quelle somme al rimborso di altri debiti. Tra pochi mesi, per spendere gli altri circa 130 miliardi, potremo contare solo su altri 54 miliardi in arrivo da Bruxelles e la differenza si tradurrà in ulteriore fabbisogno finanziario che il Mef coprirà emettendo altro debito. Un’altra delle mille trappole disseminate lungo il sentiero del PNRR.

Mentre da qualche parte si avanzano anche proposte di rinunciare a parte dei fondi per ottenere i quali ci siamo vincolati al conseguimento di obiettivi impossibili, come è stato richiesto solo pochi giorni sul Sole 24 Ore da Giuseppe Argirò, vicepresidente di Energia Futura, associazione che raccoglie i produttori di energia elettrica, si cominciano a fare i conti sui benefici portati alla crescita del nostro Paese dal PNRR. E sembra di assistere al passo del gambero. Ogni previsione presenta numeri sempre più modesti. L’ultima è quella pubblicata qualche giorno fa dalla Bce, secondo cui «i fondi del Next Generation Eu potrebbero arrivare ad aggiungere fino a 1,9 punti percentuali all’Italia nel periodo compreso fra l’inizio del programma fino al 2026 nel caso di un elevato assorbimento dei fondi, di un conseguente elevato livello della spesa e di una crescita media della produttività. Nella stima media, invece, l’impatto sulla crescita del pil sarebbe pari all’1,4 e nel caso peggiore, di basso assorbimento dei fondi e sempre in presenza di una crescita media della produttività, l’incremento della crescita derivante dal Pnrr sarebbe limitata allo 0,9%.»

Per avere un’idea di come siano numeri scritti sul ghiaccio o sulla sabbia (il risultato è uguale) basti pensare che solo pochi mesi fa, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio (Upb) aveva stimato la crescita aggiuntiva a fine piano (2026) pari a 2,9 punti di Pil. Una volta e mezza rispetto a quella stimata pochi giorni fa dalla Bce. Per non parlare dei Def del governo Draghi, secondo cui avremmo superato i 3 punti di crescita cumulata. Numeri forse buoni per il Superenalotto.

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