Il Rapporto Draghi ha già un valore in sé. Sostituisce la dottrina Timmermans, che ha oggettivamente penalizzato l’industria europea nel precedente mandato, con la priorità della competitività in una Europa altrimenti destinata al circolo vizioso del declino generalizzato, della sua capacità di produrre ricchezza, decarbonizzazione, sicurezza e coesione sociale. L’analisi dei problemi è corretta, gli obiettivi sono condivisibili. La stessa mole degli investimenti aggiuntivi verosimile.
E qui deve subentrare la politica. Come garantirli nei tempi brevi sollecitati dal Rapporto?
L’esperienza del Pnrr ci dice che gli Stati, seppure con intensità diverse, sono discutibili programmatori e ancor peggiori attuatori. A ciò si aggiunga il pericolo dell’ulteriore rigonfiamento del debito anche se, tedeschi permettendo, dovrebbe farsi collettivo. Se consideriamo il futuro per l’ecosistema, nondimeno dobbiamo considerare l’enorme differenziale attuale tra massa monetaria e economia reale e immaginare che questa bolla potrebbe un giorno esplodere con danni incalcolabili.
L’Unione, i suoi Stati membri, possono tuttavia mobilitare quegli investimenti con una regolazione meno ostile alle imprese, con lo sviluppo del mercato dei capitali, con la domanda pubblica. E la stessa quota di finanziamenti aggiuntivi, come hanno insegnato la Grecia ed altri, può essere utilizzata come “leva” moltiplicatrice degli investimenti privati piuttosto che come spesa diretta delle amministrazioni pubbliche.
Certo, cambiare molta della regolazione ambientale e adottare ovunque la “neutralità tecnologica” non è operazione politicamente indolore. Come non lo è la decisione per gli armamenti di difesa. Quanto poi alla scelta della “leva”, basterebbe ricordare ai tantissimi liberali europei (per autodefinizione) che lo Stato non solo “non deve disturbare coloro che hanno voglia di fare” ma nemmeno sostituirli.