Ad uno sguardo complessivo sul Rapporto sul futuro della competitività europea presentato lunedì da Mario Draghi emergono un paio di spunti di interesse, connessi fra loro ed utili ad inquadrare alcune dinamiche in atto.
Per prima cosa, se si guarda più da vicino al gigantismo finanziario della proposta, i citatissimi 800 miliardi di investimenti all’anno, ci si accorge che non si tratta soltanto di spesa pubblica. Una spesa, tuttavia, che viene ugualmente trattata quasi come se lo fosse.
La invocata mobilitazione di capitali pubblici e privati, infatti, da un lato postula la costruzione di un moderno mercato continentale dei capitali, il cui ritardo viene giustamente messo sotto accusa, con proposte specifiche che vanno dal settore bancario fino ai fondi pensione; dall’altro però tende a presumere che tali capitali, finalmente liberati dai colli di bottiglia che li trattengono, debbano necessariamente confluire verso gli impieghi fra i quali il rapporto scompone la cifra fatidica di 800 miliardi.
E se non manca l’indicazione di alcuni strumenti – l’utilizzo del bilancio comunitario come leva per indirizzare attraverso il riconoscimento di garanzie i capitali privati verso i settori ritenuti strategici – si nota anche come il convergere del risparmio su finalità decise dall’alto strida con l’idea stessa di libera circolazione dei capitali che è alla base del Mercato Unico.
Non c’è, in altre parole, discontinuità rispetto all’ondata di dirigismo securitario, basato su preoccupazioni di autonomia strategica, che pare ormai essere la cifra di una fase storica che si preannuncia lunga e accidentata, né forse era opportuno che ci fosse in presenza di preoccupazioni reali e pressanti. Nel momento in cui si incita ad un simile sforzo comune, tuttavia, si rivela di confidare più che nell’efficacia di questo o quello strumento di finanza pubblica, nell’esistenza di sedi decisionali pubbliche e private unite da identità di vedute, strategie ed interessi. Realtà quantitativamente ristrette, e sostanzialmente intercambiabili, che condividono una cultura ed un universo valoriale non necessariamente rappresentativi del sentire di una società dalla quale sono spesso, anche fisicamente, separate.
E questo conduce al secondo spunto che, diversamente dalla maggior parte degli emuli, tanto entusiasti quanto inconsapevoli, Draghi dimostra di saper cogliere: le conseguenze sociali della deglobalizzazione.
Dopo i fiumi di sociologia versati per anni, benché tardivamente, sulle ricadute della globalizzazione, fra borghesie globalizzate metropolitane vincenti e lavoratori espulsi dal processo produttivo nelle rust belts o semplicemente ignorati nelle campagne, si potrebbe ingenuamente pensare che il processo inverso sia destinato a rimarginare quelle fratture, risolvendosi in una sorta di rivincita degli sconfitti.
Se il buongiorno si vede dal mattino, tuttavia, è il caso di attendersi qualche brutta sorpresa. Non è, infatti, la direzione del processo a contare davvero, ma chi lo conduce.
Davvero pensiamo che le transizioni digitale ed energetica e gli investimenti in settori ad altissima specializzazione, a volte intesi più come strumento di politica estera che di politica economica, siano destinati a premiare qualcuno che non sia un lavoratore altrettanto altamente specializzato, o un territorio che non sia un’area metropolitana con adeguata dotazione infrastrutturale?
La verità è che ci si sta rivolgendo, ancora una volta, agli stessi ceti metropolitani altamente scolarizzati e di buona estrazione sociale, alle stesse realtà territoriali dei grandi centri, che sono usciti vincenti dalla fase precedente.
E che, dopo una lunga fase in cui la struttura produttiva ha saputo leccarsi le ferite e ristrutturarsi su assetti conformi alla dimensione globale – fra il 2010 ed il 2022 in Europa i posti di lavoro supportati dall’export extra UE sono passati da 23 a 31 milioni – una nuova torsione in senso opposto, anziché colmare i solchi scavati dalla globalizzazione, rischia al contrario di approfondirli: se a suo tempo i padri hanno perso il lavoro a causa della concorrenza cinese, i figli rischiano ora di perderlo per le ritorsioni cinesi alle nostre politiche commerciali restrittive.
Ecco perché il cenno che il rapporto dedica alla necessità di preservare l’inclusione sociale, insieme alla critica alla “insensibilità dei policymakers per le conseguenze sociali della globalizzazione, specialmente per i suoi effetti sui redditi da lavoro”, rappresenta un elemento significativo.
Il limite, semmai, è quello di declinare questa attenzione sociale quasi esclusivamente in termini di empowerment e di politica attiva. Il che è certamente utile per allargare per quanto possibile la base sociale di consenso per la nuova stagione, ma risolve solo in piccola parte il problema. Cooptare un po’ di esclusi, attraverso la crescita professionale, non potrà mai assorbire il campo di quelli che resteranno ai margini del processo, perché non possono diventare tutti ingegneri o esperti di intelligenza artificiale, né è utile e previsto che lo diventino.
Dalla capacità di conciliare competenza di analisi dall’alto, che nel rapporto c’è, con istanze di rappresentanza sociale e territoriale, che anche per la natura del documento inevitabilmente mancano, dipenderà non solo il successo delle proposte del rapporto ma anche la direzione e gli approdi di una fase storica della quale, probabilmente, abbiamo visto finora soltanto gli albori.