Skip to content

Draghi

Perché il rapporto di Draghi non convince

Ammesso e non concesso che le direttrici di investimento proposte da Draghi per recuperare il gap con gli Usa e la Cina siano condivisibili, qual è l’agenda? L'analisi di Giuseppe Liturri.

Cerchiamo faticosamente di farci largo nel mare di melassa che si ingrossa di ora in ora a proposito del rapporto sulla competitività presentato ieri da Mario Draghi, dopo quasi un anno dal ricevimento dell’incarico da parte di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione.

Nulla ci convince. A partire da una fondamentale premessa di metodo che, da sola, potrebbe già assorbire e rendere inutile qualsiasi altra considerazione. Infatti Draghi sembra dimenticare che quando qualcuno è parte e causa del problema, è molto difficile se non impossibile che possa contribuire anche alla soluzione. Tutti i problemi (ritardo negli investimenti, scarsa produttività, declino industriale, ecc…) sono infatti quasi esclusivamente attribuibili proprio alla struttura disfunzionale ed alle scelte di politica economica e industriale altrettanto distorsive e dannose che la Ue ha attuato in questi anni.

Chi ha depresso gli investimenti pubblici con assurde strette di bilancio pro cicliche? Chi, via minori investimenti, ha depresso la produttività, incoraggiando, come principale leva di competitività, solo la moderazione dei prezzi e quella salariale in particolare? Chi, con una immigrazione incontrollata, ha solo alimentato la crescita di un “esercito industriale di riserva” con la funzione di smorzare sul nascere le rivendicazioni salariali? Chi, con la tagliola del divieto di aiuti di Stato distorsivi della concorrenza, ha bloccato la crescita di imprese di dimensioni internazionali? Chi ha scatenato una epocale bolla rialzista sui prezzi del gas (ingrassando le casse di Mosca, anziché svuotarle), prima nel 2021 con gli obiettivi lunari del Green Deal e poi, nel 2022, correndo affannosamente a riempire gli stoccaggi di gas, nell’illusione che “spegnendo il condizionatore” avremmo avuto la pace? E si potrebbe proseguire ad oltranza…

Siamo messi male, non per il destino cinico e baro, ma perché in gran parte si tratta di danni autoinflitti. E questo Draghi dimentica clamorosamente di farlo notare. Forse perché è stato almeno co-autore di alcune di quelle decisioni?

Da qui discende la principale perplessità: com’è possibile anche solo pensare che la Ue – costruita scientificamente proprio per perseguire quelle politiche rivelatesi dannose – possa intraprendere un’altra strada più virtuosa e foriera di benessere per i propri cittadini? Sarebbe come chiedere ad una motosega, che può solo tagliare alberi, di fare qualcosa contro la deforestazione. Non funzionerà.

Poi ci sono quattro rilievi nel merito.

  • Draghi ripropone il mito del “pennello grande”, quando sappiamo che è meglio puntare a un “grande pennello”. È fuori luogo e infondata la premessa secondo cui gli Stati nazionali sono troppo piccoli per competere contro le grandi potenze mondiali. La maggiore massa critica della UE non ci aiuterà se nessuno dei fronti aperti. Germania, Francia e Italia sono ancora tra le maggiori potenze manifatturiere mondiali e ciascun Paese ha le proprie specificità, i propri vantaggi comparati. Che in questi anni, soprattutto per l’Italia, sono stati soltanto mortificati dalle norme partorite dalla cervellotica burocrazia di Bruxelles. E non ci risulta che la Corea del Sud (PIL di poco inferiore a quello dell’Italia), con la Cina dietro il collo e il Giappone dietro l’angolo, stia pensando di fare Unioni di sorta per affrontare le sfide delle ultime tecnologie, in cui peraltro già primeggia.

La storia della Ue ci ha insegnato che la dimensione ottimale di intervento non è quella del Super Stato (che peraltro nessuno vuole), ma quella degli Stati nazionali, ciascuna con le sue priorità e le sue direttrici preferenziali di investimento. Non esiste una taglia di abito buona per tutti. Non esistono mitologici “beni comuni” su cui investire congiuntamente con efficacia equamente distribuibile tra i Paesi membri. Tranne, forse, la difesa. Ma allora meglio dire ad alta voce che si tratta, banalmente, di una corsa a riempire gli arsenali militari.

  • E se qualcuno non ci sta? Si parte con quelli che ci stanno. Infatti, Draghi passa come un Caterpillar sull’unanimità e sull’attuale regola di governance europea, proponendo l’ampliamento delle materie decise a maggioranza qualificata. Non ha esitato a parlare di “coalizione dei volenterosi”. Una Unione o due o tre livelli crescenti di collaborazione. Le regole della democrazia sono un fastidioso orpello, non da oggi. C’è solo un problema: per cambiare le regole, ci vuole l’unanimità. E qui Draghi si deve fermare.
  • Chi paga? E’ stato imbarazzante il duetto con la von der Leyen a proposito dei contributi nazionali (su cui si reggono i due terzi del bilancio UE) e delle cosiddette “risorse proprie” (cioè imposte e tasse che in qualche modo affluiscono direttamente nelle casse di Bruxelles). Semplicemente quei soldi oggi non ci sono. Ed ecco che risorge dalle ceneri l’araba fenice del “debito comune”. Che però viene visto come il diavolo dai tedeschi e dalla loro Corte Costituzionale. In ogni caso, si tratta di qualcosa semplicemente vietata dai Trattati vigenti. E l’esperienza del NextGenerationUE è stata possibile solo perché tecnicamente non si è trattato di eurobond, ma di debiti di fatto dei singoli Stati membri, che hanno garantito pro quota le emissioni.
  • Ammesso e non concesso che le direttrici di investimento proposte per recuperare il gap con gli Usa e la Cina siano condivisibili, qual è l’agenda? Chi fa, cosa fa e quando lo fa? Chi viene investito dell’esecuzione? La Commissione? Ipotesi più probabile, ma poi deve passare dal Consiglio (L’Europarlamento fa solo tappezzeria) e là emergerebbero tutti i difetti, le differenze e le priorità nazionali. Davvero Draghi pensa di avviare e eseguire un piano del genere con l’attuale assetto istituzionale? Con gli estenuanti triloghi tra Commissione, Parlamento e Consiglio? E torniamo al punto 2 precedente, per concludere che l’unica riforma buona è quella che prevede un ordinato smantellamento di un assetto istituzionale che si è rivelato una zavorra per la competitività dell’Europa e dell’Italia in particolare. Basterebbe solo quello, per liberare le forze e i talenti che il nostro Paese è in grado di esprimere.

Torna su