L’idea di dare ai decreti legge un nome ed un cognome risale all’esperienza del Governo Monti. Checché se ne dica, qualcosa che sarebbe meglio dimenticare che evocare. Giuseppe Conte non è stato da meno. Libero di farlo. Ed ecco allora il fiorire di un piccolo immaginario. Il decreto legge 18 del 17 marzo scorso che diventa il “cura Italia”. Il successivo — n. 23 dell’8 aprile — che assume il titolo altisonante di “decreto liquidità”. Che qualcuno avrebbe dovuto integrare con le parole “che non c’è”. Ed infine il decreto n.34 del 19 maggio dal nome ancora più evocativo: “decreto Rilancio”. Nella speranza che non si riferisca ad una sorta di partita di poker, con tanto di bluff.
I primi due decreti sono stati convertiti in legge in data 24 aprile, il primo; il 5 giugno il secondo; il terzo è ancora in discussione in Parlamento. Questo lo Stato dell’arte. Dal prima legge di conversione sono passati appena 2 mesi, dalla seconda uno solo, mentre della terza siamo ancora in attesa. Quand’ecco che all’improvviso, si sente una voce: “compagni si cambia”. È il Ministro Gualtieri che con un nuovo decreto, il n.52 di pochi giorni fa (16 giugno), estratta la pistola, dice agli altri ministri: signori non è detto che ciò che il Parlamento vi ha concesso può essere da Voi considerato nella vostra piena disponibilità.
L’articolo 4 del nuovo decreto, infatti, stabilisce che “le risorse destinate a ciascuna delle misure previste” dai decreti in precedenza richiamati, “sono soggette ad un monitoraggio effettuato dal Ministero dell’economia e delle finanze. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sulla base degli esiti del monitoraggio di cui al periodo precedente, al fine di ottimizzare l’allocazione delle risorse disponibili, e’ autorizzato, sentiti i Ministri competenti, ad apportare con propri decreti le occorrenti variazioni di bilancio, anche mediante versamento all’entrata e successiva riassegnazione alla spesa di somme gestite su conti di tesoreria, provvedendo a rimodulare le predette risorse tra le misure” indicate nei suddetti decreti. Unico vincolo: il “primo periodo, dall’articolo 169, comma 6, secondo periodo, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34”. Che sono poi le risorse allocate (100 milioni) nel Fondo per far fronte alla liquidazione coatta amministrativa di alcune banche.
La cosa ancora più stravagante è il fatto che il decreto n.34 del 2020 — quello appena citato — deve ancora essere convertito in legge. Ne consegue che con un successivo decreto legge si dice al Parlamento che l’articolo 169 non può essere modificato. Insomma: bel pasticcio. Specie se si considera il momento. L’idea ossessiva, continuamente evocata dal premier, della semplificazione amministrativa e burocratica. Più volte brandita come una mazza, visto il precedente, essa rischia di rimanere solo un’idea: “l’astrazione“ delle canzoni di Giorgio Gaber.
Ma al di là della sovrapposizione di precetti giuridici in via di formazione, il Governo dovrebbe spiegare cos’è successo in questi pochi mesi per giustificare un provvedimento così drastico, che, di fatto, altera il bilanciamento dei ruoli all’interno del Consiglio dei ministri. Si crea infatti un “super ministro” che ha un potere superiore a quello del Presidente del consiglio. Può, infatti, sottrarre risorse ai propri colleghi dopo averli semplicemente “sentiti”. E chi è esperto del linguaggio paludato della governance amministrativa sa che quell’inciso vale meno di “niente”. E’ il famoso sigaro di Giolitti, che non si nega a nessuno.
Ma se questo è vero, allora c’è da preoccuparsi. E non solo per gli aspetti di democrazia. Il fascismo non è alle porte. Ma per la drammaticità prospettica della situazione. Se un solo ministro ha l’onere di monitorare e disporre cambiamenti di destinazione nell’allocazione delle risorse, per un valore complessivo di oltre 80 miliardi di euro, questo significa che tutto ciò che finora si è fatto e promesso ha scarso fondamento. Significa forse che la liquidità continuerà a mancare, che l’Inps non riuscirà a pagare il dovuto, che la Cassa integrazione continuerà a non arrivare e via dicendo. Ed allora le relative somme, stanziate dal Parlamento, piuttosto che farle rimanere congelate in qualche capitolo di bilancio, meglio dirottarle altrove.
Che non si tratti di una grande novità, basti pensare a come sono state gestite molte risorse dei fondi comunitari. Quando, per evitare la loro perenzione, si dirottavano verso le iniziative che presentavano il maggior tiraggio di cassa. Tante piccole opere inutili, ma almeno i soldi venivano spesi. Solo che allora la barca andava e si trattava di cifre relativamente modeste. Oggi invece si parla di decine di miliardi, mentre il Paese, seppur tra un convegno ed una riunione degli Stati generali, rischia di sprofondare.