Gli Stati Uniti sono ufficialmente in recessione. Il ciclo espansivo più lungo della storia si è fermato dopo 128 mesi di crescita senza pause, dal giugno del 2009 fino ad oggi. A decretarne la fine è il National Bureau of Economic Research statunitense, che ha individuato in febbraio del 2020 il picco dell’attività economica.
D’altro canto, i segnali in tal senso erano stati evidenti. Sarebbe bastato il tasso di disoccupazione, che nel mese di aprile aveva sfiorato il 15%, segnando la perdita di oltre 20 milioni di posti di lavoro in un solo mese (considerando anche la disoccupazione “latente” dovuta al fatto che molte persone impiegate non potessero comunque lavorare, si arrivava quasi al 20% della popolazione).
Sul mercato del lavoro, però, due elementi inducono oggi a un certo ottimismo. Il primo è che, a differenza di quanto successo nel corso dell’ultima crisi (2007-2009), l’impennata nella disoccupazione pare in questo caso legata principalmente a licenziamenti di natura temporanea, che l’economia dovrebbe essere in grado di reintegrare nella fase di ripartenza. Il secondo è il dato sorprendentemente positivo registrato nel mese di maggio. I non-farm payrolls, infatti, hanno segnalato la creazione di 2,5 milioni di posti di lavoro nel mese di maggio, nonostante gli operatori si aspettassero un’ulteriore riduzione di oltre 7 milioni di posti di lavoro. Come conseguenza di ciò, il tasso di disoccupazione, proiettato al 19% della popolazione, è in realtà calato al 13,3%, a dimostrazione ancora una volta di quanto sia complesso in questo momento fare previsioni economiche.
I dati sul mercato del lavoro statunitense di maggio, se verificati, sembrano confermare il famoso trend a “V” della ripresa, già mostrato dai dati economici cinesi (dove ormai l’attività è tornata di fatto sui suoi livelli normali) e in parte anche da alcuni indicatori americani, sia lato produzione (PMI manifatturieri) sia lato consumi (domanda di automobili). Affinché tale dinamica possa proseguire, appare però assolutamente necessario evitare una seconda ondata di contagi, un rischio finora scongiurato ma che inizia a manifestarsi in alcuni Paesi, come per esempio in Cina. In caso contrario, la “V” potrebbe presto trasformarsi in una “W” con danni strutturali all’economia globale, contro cui nemmeno l’atteggiamento accomodante di banche centrali e governi potrebbe molto.
Questi, dal canto loro, stanno già ricorrendo a gran parte delle armi a loro disposizione, per cui diventerebbe difficile ipotizzare nuove ingenti misure di stimolo nel caso di un fallimento del tentativo di ritorno alla normalità. A conferma della linea ultra-accomodante, la Federal Reserve in settimana ha annunciato che al momento non sta nemmeno pensando di pensare di rialzare i tassi (“not even thinking of thinking about raising rates”), spostando su un piano di indefinitezza temporale tale eventualità, in precedenza esclusa per i prossimi 2 anni. Una dichiarazione che ha portato gli operatori a ipotizzare tassi nominali lontani dal valore di equilibrio di lungo termine (tasso neutrale della Fed, stimato al 2,5%) ancora per molto tempo (le proiezioni per il 2025 sono all’1%). Ancora più significativamente, i rendimenti reali, veramente rilevanti per economia e attivi finanziari, sono negativi anche su scadenze molto lunghe, con quelli a 10 anni pari a -0,5%. Inoltre, siamo convinti che, una volta richiuso l’output gap apertosi con il COVID, l’inflazione potrà almeno riavvicinarsi al target del 2% (sarà tollerato anche un suo superamento) e che le banche centrali faranno in modo di limitare che l’aumento dell’inflazione (corrente e attesa) si trasferisca interamente sui tassi nominali. In tal caso, tassi e rendimenti reali potranno rimanere stabili o addirittura scendere. Si tratta di uno scenario che equivarrebbe a un ulteriore stimolo economico nonché un toccasana per la sostenibilità del debito sia per il settore pubblico sia per quello privato, che si saranno ulteriormente indebitati.
Come detto, però, a questo punto alla banca centrale restano relativamente poche soluzioni inutilizzate nel proprio arsenale: tra queste, quella più probabile e di cui si sta già discutendo è un programma di controllo della curva alla giapponese, particolarmente efficace per agire sulle scadenze più lunghe, eventualmente in alternativa al QE che non potrà proseguire in eterno, neppure negli USA. Al momento la Fed garantisce la sostanziale monetizzazione del deficit pubblico, lasciando maggiore spazio di manovra fiscale all’amministrazione. Non è un caso che il Tesoro stia facendo in questo front-loading del debito pubblico: approfittando proprio delle condizioni favorevoli garantite dalla banca centrale (tassi bassi e acquisti massicci), il Governo sta emettendo Treasury in misura maggiore rispetto al proprio fabbisogno attuale, accantonando le risorse di cui avrà bisogno nel corso dell’anno (circa $4’000 miliardi complessivi, poco meno del 20% del PIL). Lo stesso processo di monetizzazione del debito sta avvenendo nel Vecchio Continente, dove la BCE il 4 giugno ha deciso di ampliare di ulteriori €600 miliardi il programma di acquisti di emergenza PEPP (ora da €1’350 miliardi complessivi) e di estenderlo almeno fino a fine giugno 2021. Come effetto di ciò, la quota di debito/PIL detenuta dalla banca centrale è destinata a salire dall’attuale 23% fino a poco meno del 30% del totale entro fine anno, andando quindi a coprire gran parte dell’emissione di nuovo debito a cui dovranno inevitabilmente ricorrere i singoli Stati membri.
Contemporaneamente, nella regione è in fase di definizione il piano Next Generation EU, il vecchio Recovery Fund, il tanto agognato intervento collettivo che rappresenta un vero e proprio punto di svolta per l’assetto politico comunitario. Nella sua formulazione attuale, il Next Generation EU comporta un trasferimento netto di risorse dai Paesi con maggiore margine di manovra fiscale, Germania su tutti, ai Paesi più indebitati e con minore possibilità di agire tramite le leve del proprio bilancio pubblico, Italia, Spagna e in questa occasione anche Francia. Una manovra che va nella stessa direzione della strada intrapresa negli ultimi mesi dalla BCE che all’interno dei suoi programmi di acquisto, deviando temporaneamente dal meccanismo delle capital key, ha comprato in misura maggiore i Titoli sovrani dei Paesi in particolare difficoltà (sempre Italia, Spagna e Francia). Una misura di emergenza resa necessaria dalla diversa possibilità di spesa fiscale dei singoli Stati, ma che non potrà durare a lungo (per richiamare all’ordine la BCE, infatti, è già intervenuta la Corte Costituzionale Tedesca). In tal senso, il nuovo Recovery Fund andrà a sostituirsi all’istituto centrale nella redistribuzione delle risorse finanziarie all’interno della regione, anche se per vederlo all’opera bisognerà aspettare verosimilmente il 2021. Nel frattempo, non è da escludere, per i Paesi più bisognosi, il ricorso combinato a MES e OMT.
Con le banche centrali impegnate a mantenere i tassi reali bassi ancora a lungo, non deve sorprendere la risalita delle valutazioni azionarie degli ultimi mesi. I tassi di interesse, infatti, impattano per tre diverse vie sui prezzi delle azioni e una loro discesa non fa altro che sostenere i multipli. In primo luogo, essi compongono il tasso di sconto dei flussi di cassa futuri (i dividendi), per cui una loro discesa non fa altro che far crescere il valore attuale dei dividendi futuri e, di conseguenza, i prezzi. In secondo luogo, i tassi di interesse sono uno dei fattori chiave che influenzano il costo a cui le imprese si finanziano: anche da questo punto di vista, quindi, i tassi bassi a lungo sono un’ottima notizia per le azioni. Infine, dal punto di vista meramente finanziario, rappresentano la prima alternativa agli investimenti azionari e una loro compressione non fa altro che ampliare i premi di rischio; perché questi tornino su livelli prossimi alla loro media storica (4,4% circa), i prezzi azionari devono necessariamente salire ancora, chiudendo il gap di rendimento tra azioni (earnings yield, ossia l’inverso del rapporto P/E) e obbligazioni (real bond yield).
Per i motivi suesposti, in un contesto di tassi bassi a lungo, a parità di utili, le valutazioni azionarie vengono inevitabilmente sospinte in alto. Non si può escludere, quindi, la possibilità che vedremo multipli su livelli non economici ancora per parecchio tempo. Non a caso i mercati che nelle ultime settimane hanno sperimentato la maggiore espansione dei multipli sono quelli caratterizzati da banche centrali più aggressive (USA, UK ed eurozona). In un simile scenario, a determinare l’evoluzione delle valutazioni di borsa sarà soprattutto la dinamica degli utili. In questo momento, il consenso degli analisti prevede un miglioramento della crescita degli utili da qui a 12 mesi, dopo il crollo registrato nei mesi passati. Anche gli analisti sembrano sposare, quindi, l’ipotesi di una ripresa a “V”. Tuttavia, l’incertezza nelle previsioni economiche è ancora elevata (come dimostrato, per esempio, dai dati sorprendenti del mercato del lavoro US) e il rischio di una nuova ondata di contagi grava inesorabilmente sulle prospettive per gli utili aziendali.
Contestualizzando l’incertezza che regna attorno a queste previsioni, può essere utile fare un paragone. Come detto, l’errore compiuto dagli economisti nello stimare l’ultimo dato del mercato del lavoro USA è stato macroscopico. Un errore di oltre 10 milioni di posti di lavoro, in termini statistici, equivale a un errore di stima pari a 15 standard deviation. Il mercato americano tratta attualmente ad un rapporto prezzo/utile pari a 23 volte. Gli utili (al denominatore) sono stimati: proiettando un errore di stima simile a quello compiuto dagli economisti, potremo dire che l’intervallo in cui potrebbe aggirarsi il vero P/E sta tra 10 e 50. Di certo, non un grande riferimento per prendere delle decisioni di asset allocation. Ad aggiungere alea al contesto descritto, sullo sfondo inizia a delinearsi lo scoglio delle elezioni americane: il Presidente Trump non perde eccessivamente consensi nonostante gli errori (se non altro di comunicazione) nella gestione dell’emergenza sanitaria e la violenta ondata di proteste delle ultime settimane, ma pare in questo momento favorito il candidato democratico Joe Biden. Una sua eventuale vittoria, verosimilmente accompagnata da un controllo democratico del Congresso, potrebbe voler dire maggiori tasse sulle imprese e una nuova fase di regolamentazione, due fattori non graditi dal mercato.
In definitiva, la lettura dei prossimi mesi appare contornata da una serie di fattori di rischio di difficile previsione, anche perché in buona parte di natura esogena (nuova ondata di contagi). All’orizzonte, abbiamo un’unica grande certezza: tassi bassi ancora a lungo.