Vogliamo scommettere? Quando comincerà a mettere il nero sul bianco dei fogli di un programma elettorale (che dovrebbe essere unitario per tutta la coalizione di centro destra) Silvio Berlusconi tornerà a rammendare le solite vecchie calze come fa da anni. In particolare, eserciterà la fantasia (che non è più quella di una volta) sui temi che nel tempo gli hanno portato fortuna, a cominciare da quel milione di lire mensili a cui il suo governo – da signor Bonaventura in carne ed ossa – aveva elevato le pensioni minime nel 2001.
In fase di attuazione, l’erogazione era stata ridimensionata nel senso che quell’aumento fu riservato, tramite le maggiorazioni sociali, ai pensionati che non disponevano di altri redditi; ma fu comunque un’operazione importante che fruttò al Cav. un buon livello di consenso. Nel 2022, in regime di euro, in base alla rivalutazione annua al costo della vita, la pensione integrata al minimo ammonta (trascurando i decimali) a 524 euro mensili, mentre quelle che godono delle maggiorazioni sociali (l’ex milione) arrivano a 660 euro.
Berlusconi ha sempre avuto buon gioco nel sostenere che l’introduzione della moneta unica aveva dimezzato il valore delle pensioni minime (con l’allineamento di fatto tra lira e euro) e che quindi sarebbe stato necessario riproporzionare quel valore, perché un milione di lire del 2001 non corrisponderebbe a 660 euro nel 2022. Nel programma per le elezioni politiche del 2018 era previsto un ‘’Aumento delle pensioni minime e pensioni alle mamme’’, senza indicazioni dei relativi importati, anche se durante la propaganda elettorale i mille euro venivano promessi senza fare troppe storie.
Per inciso, sarà comunque interessante confrontare il programma del 2018 con quello del 2022, non solo per notare le ripetizioni e le riscritture, ma anche per valutare, a posteriori, le richieste che quella coalizione presentava rispetto all’azione parlamentare poi condotta durante la legislatura che si è chiusa anticipatamente. Per esempio nel punto 4 del programma comune del 2018 stava scritto all’inizio: ‘’Azzeramento della povertà assoluta con un grande Piano di sostegno ai cittadini italiani in condizione di estrema indigenza, allo scopo di ridare loro dignità economica’’: a prova evidente che la tematica del reddito di cittadinanza – che gonfiava le vele del ‘’grillismo’’- aveva contaminato anche le altre formazioni politiche, le stesse che durante la legislatura avevano criticato quella misura simbolo, il dileggio della quale è stato una delle insostenibili motivazioni con cui Conte ha aperto la crisi.
Berlusconi ci riprova; ha già speso le pensioni minime a mille euro per 13 mensilità fin dalle prime battute televisive. L’operazione peserebbe, ovviamente, sulle finanze pubbliche oltre a squilibrare il sistema pensionistico. Sul primo aspetto è difficile fare dei conti precisi, in primo luogo perché bisogna capire se l’incremento riguarderebbe le pensioni di importo inferiore a quel livello o i pensionati con un reddito cumulato più basso. È chiaro che le prime sarebbero tante di più dei secondi. Poi, anche ai tempi del milione berlusconiano furono introdotti – come abbiamo già ricordato – criteri selettivi.
E’ corretto allora avvicinarsi al problema dei costi con indicazioni di massima. Il contributo dello Stato alla GIAS per il finanziamento dell’integrazione al minimo (non stiamo a spiegare il complesso meccanismo con cui si determina il trasferimento) è pari ad oltre 21 miliardi l’anno. Altro dato interessante è il numero delle pensioni fino a una volta il minimo (i dati sono del 2018) che sono poco meno di 7,882 milioni, mentre i pensionati sono 2.254.372. Stesso discorso vale per la successiva classe di importo (dal minimo a 1.026,02 euro lordi mensili), cui appartengono circa 6,858 milioni di prestazioni pensionistiche, ma circa 4,065 milioni di pensionati. Tale fenomeno si spiega perché nel reddito pensionistico spesso si cumulano, in capo a uno stesso individuo (questo vale per il 32,7% dei pensionati), una pensione di importo medio o alto e un secondo o terzo importo di un trattamento basso (quote di pensioni in regime internazionale, pensioni supplementari, indennità di accompagnamento, pensioni complementari, pensioni di reversibilità, ecc.), che quando si sommano e si classificano non più come singola pensione (classi di importo della pensione), ma come pensionato e quindi come classi di reddito pensionistico prodotto del cumulo dei diversi importi.
In totale le prestazioni fino a due volte il trattamento minimo (circa mille euro) sono 14,7 milioni, pari al 64,6% delle pensioni in pagamento, mentre i pensionati sono circa 6,3 milioni (il 39,4% del totale pensionati), peraltro quasi tutti con trattamenti in tutto o in parte assistenziali ossia senza una contribuzione alle spalle (invalidità civile, assegni sociali, di guerra o con maggiorazioni sociali, importi aggiuntivi, 14ma mensilità e pensione di cittadinanza) o pensioni integrate al minimo più “la maggiorazione al milione Berlusconi”, che nel 2019 valeva ben 649,45 euro al mese (nel 2022, 660 euro). Si tratta quindi di soggetti che nella loro vita attiva hanno versato pochi o zero contributi (e parallelamente poche o nessuna imposta) e che sono a carico della collettività. A occhio, quindi la nuova proposta del Cav riguarderebbe circa 8 milioni di pensioni al di sotto dei mille euro oppure più di due milioni di pensionati. Ovviamente questi dati andrebbero aggiornati al momento della eventuale legge, ma le grandezze non cambierebbero di peso. Ciò detto è il caso di aggiungere una valutazione di sistema.
Quale sarebbe l’interesse dei contribuenti a tenere comportamenti di regolarità se lo Stato gli garantisse comunque un importo della pensione pari a più del 60% di quelle in pagamento? Inoltre, come fa notare il Centro studi di Itinerari previdenziali: ‘’escludendo le prime due classi di reddito pensionistico (fino a due volte il minimo, 1.026,02 euro mensili lordi), che sono tipicamente totalmente o parzialmente assistenziali per un totale di 6.319.022 pensionati (contro circa 7,4 milioni di assistiti), il reddito previdenziale medio (supportato da contributi) dei restanti 9,7 milioni di pensionati ammonterebbe a 26.082,16 euro annui lordi.
Che senso avrebbe portare il livello della pensione di chi – per varie ragioni – ha versato pochi contributi, vicino a quello di un lavoratore che ha contribuito per decenni? Certo, le persone devono poter vivere dignitosamente. Ma per affrontare situazioni di indigenza e povertà è corretto adottare misure di assistenza, senza squilibrare il sistema pensionistico la cui natura sta nel rapporto con la retribuzione percepita durante l’attività lavorativa.