Il Regolamento 241/2021 che istituisce “il dispositivo per la ripresa e la resilienza” è stato approvato dal Parlamento europeo il 12 febbraio 2021. Secondo il Regolamento gli Stati membri dovevano presentare “non tassativamente” il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) alla Commissione europea entro il 30 aprile 2021. Allo stato attuale solo 14 Stati membri su 27 lo hanno presentato. La Commissione Ue avrà due mesi di tempo per approvarlo e presentarlo al Consiglio che avrà a sua volta un mese per la sua definitiva approvazione. Solo dopo questa procedura ogni Stato potrà ricevere il 13% dei fondi (circa 25 miliardi all’Italia) sotto forma di anticipazione (si ricorda che le erogazioni successive avranno cadenza semestrale sotto forma di SAL).
L’Italia ha presentato il suo Pnrr dal titolo evocativo “Italia domani” il 30 aprile scorso. Il Piano italiano, composto di 273 pagine di testo e 2487 pagine di allegati, con una dotazione finanziaria pari a 191,5 miliardi di euro (138,5 miliardi di euro destinati a nuovi progetti e 53 miliardi di euro destinati a vecchi progetti), si articola in 6 Missioni, 16 componenti e 141 progetti di cui 134 relativi a investimenti e 7 riferiti alle riforme (le cosiddette “condizionalità”). Queste le informazioni essenziali che fanno da cornice alla nostra domanda: che impatto avrà questo ammontare di denaro, che dovrà essere impegnato entro il 2023 e speso entro il 2026, sull’economia italiana?
Dalle informazioni presenti nell’ultima versione del Piano del Governo Conte II presentata il 12 gennaio 2021 sarebbe stato impossibile rispondere a tale domanda in quanto non era stata fatta alcuna valutazione ex-ante d’impatto economico, a parte qualche generica previsione di crescita del Pil. Circostanza da me ben evidenziata nel marzo scorso in un articolo sull’argomento pubblicato proprio su questa rivista, nella quale auspicavo la necessità e l’importanza della presenza nel Piano della valutazione d’impatto macroeconomico, essendo essa utile per valutare in termini di efficienza/efficacia economica la bontà delle policy messe in atto.
Appello “ascoltato”, se è vero che nel Piano presentato ufficialmente a Bruxelles (da pag 247 a pag. 272) è presente una articolata e dettagliata “Valutazione di Impatto Macroeconomico” di cui commentiamo solo alcuni passaggi di particolare rilevanza e che mettono in luce una criticità che, a nostro avviso, è stata sottovalutata o comunque non approfondita: la relazione tra crescita addizionale del Pil e gli effetti sugli squilibri della bilancia commerciale.
In primo luogo occorre dire che la stima degli impatti macroeconomici complessivi è stata ottenuta attraverso l’utilizzo del modello Quest sviluppato dalla Commissione Europea.
Dal Piano si rileva che il Pil, nel 2026, sarebbe più alto di 3,6 punti percentuali rispetto allo scenario di base grazie all’impatto degli investimenti previsti. A tale risultato contribuiscono principalmente due fattori. Nel breve termine prevarrebbe l’effetto di domanda innescato, ad esempio, dalle maggiori spese per la costruzione e messa in opera degli investimenti pubblici. Nel medio periodo i maggiori investimenti accrescerebbero lo stock di capitale pubblico con effetti positivi persistenti su Pil potenziale ed effettivo.
Per completezza di analisi, nel Piano si sono anche considerati due scenari alternativi rispetto a quello “alto” considerato in precedenza. Il primo è uno scenario “medio”, in cui sono finanziati investimenti pubblici tradizionali, ossia investimenti con un’efficacia sul Pil corrispondente alla stima media rilevata nella letteratura empirica: incremento del Pil pari a +2,7%. Il secondo è uno scenario “basso”, in cui sono finanziati investimenti pubblici con una minore efficacia, ossia quelli con una ricaduta minore in termini di crescita del Pil potenziale: incremento aggiuntivo del Pil pari a +1,8%.
Il passaggio che vogliamo evidenziare è quanto affermato senza nessuna enfasi né un necessario approfondimento a pag. 254 del Piano: “la bilancia commerciale registrerebbe un peggioramento per via dell’aumento delle importazioni, trainato soprattutto dalla spesa in attrezzature elettroniche ed informatiche, e di una lieve riduzione dell’export”.
Con una valutazione d’impatto che stima una significativa crescita addizionale del Pil, quanto scritto nel Piano merita un attento approfondimento soprattutto in considerazione delle riconosciute e consolidate relazioni macroeconomiche esistenti tra crescita del Pil e esportazioni (variabile autonoma della domanda aggregata) e importazioni (variabile dipendente dal Pil della domanda aggregata) e della elevata propensione all’export/import dell’economia italiana.
A tal proposito, secondo i dati presenti nel Piano, si rileva che le importazioni, nel 2026, cresceranno in maniera aggiuntiva rispetto allo scenario base di ben 4 punti percentuali contro un incremento delle esportazioni pari a 2,7 punti percentuali. Inoltre, occorre specificare che, secondo il modello econometrico, le importazioni aumenteranno già dal 2021 e continueranno a crescere fino al 2026, mentre le esportazioni, dopo una riduzione nel primo triennio 2021-23, cominceranno a crescere solo dal 2024.
Di conseguenza, l’impatto sullo squilibrio della bilancia commerciale italiana potrebbe essere sottostimato poiché l’effetto negativo potrebbe essere ben maggiore in termini di riduzione del surplus o aumento del deficit degli scambi con l’estero a causa di un più forte incremento delle importazioni rispetto a quanto previsto. Ciò potrebbe in parte anche ridurre il contributo positivo che gli investimenti previsti avranno sulla crescita del Pil del nostro Paese e quindi sull’occupazione (riduzione del tasso di disoccupazione dal 9,8% del 2021 al 9% del 2022), alimentando indirettamente la crescita di altri Paesi competitors, in primis Germania e Cina, e favorendo possibili pressioni sul tasso di inflazione e sulla struttura dei tassi di interesse, questa ultima particolarmente sensibile a causa dell’elevato debito pubblico italiano.
Le nostre preoccupazioni hanno origine soprattutto conoscendo le carenze strutturali del nostro sistema produttivo, in particolare il deficit di offerta presente nelle filiere dell’informatica, del digitale, delle energie rinnovabili, etc., settori che saranno fortemente coinvolti dal Pnrr italiano se consideriamo che dei 191,5 miliardi di euro ben 102 miliardi di euro siano destinati alla Missione 1 (Transizione digitale/innovazione) e alla Missione 2 (Transizione ecologica).
In conclusione, queste brevi considerazioni forniscono lo spunto, tra gli altri, per tre suggerimenti. Il primo di politica industriale: favorire la sviluppo, la localizzazione anche di imprese estere e il reshoring di imprese italiane specializzate in quei settori attualmente deficitari in Italia ma fortemente incentivati nel Piano; il secondo è rivolto al sistema imprenditoriale nazionale ed in particolare alle start-up innovative e alle imprese di under35, al fine di poter cogliere le occasioni di business fornite dal Piano con la nascita di nuove imprese nei settori “deficitari” in precedenza indicati; il terzo è rivolto al mondo della ricerca economica presente soprattutto nelle Università sollecitandolo a studiare e approfondire l’argomento nei prossimi mesi, anche attraverso l’ausilio delle matrici Input/Output e dei modelli econometrici dedicati, con l’obiettivo di supportare i policy maker nel fare le scelte più opportune e giuste per il nostro Paese.
Giuseppe Capuano (economista esperto PNRR)