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Agenzia Delle Entrate

Proroga biennale dei termini, l’Agenzia delle Entrate dice davvero tutto?

L'analisi di Mino Rossi sulla comunicazione dell'Agenzia delle Entrate in audizione alla Camera in materia di proroga biennale dei termini

Comunicazione ingannevole di Agenzia delle Entrate verso le Commissioni riunite della Camera VI e X in danno soprattutto del popolo delle partite Iva?

Venerdì scorso, con la conversione in legge del decreto Cura Italia, il Parlamento ha soppresso il prolungamento di due anni del termine di accertamento per Irpef, Iva, Irap, eccetera, proroga inizialmente prevista dall’articolo 67, comma 4 del decreto legge Cura Italia. In sede di audizione alla Camera del 22 aprile scorso, il capo dell’Agenzia delle Entrate (AdE) ha dichiarato che tale differimento dei termini era stato voluto al solo fine di non far gravare sul contribuente, vista la fase emergenziale in corso, il peso di una maxi-ondata di notifiche costituita da 8,5 milioni di atti tributari, tutti da recapitare entro l’anno.

Si è trattato di parole fuorvianti. Anzitutto per il dato degli 8,5 milioni: da tutti rendiconti dell’Agenzia dell’Entrate risulta che per i periodi passati non è mai esistita un’annualità con un complessivo carico di notifiche prossimo agli 8 milioni e passa. Inoltre, sia pur in modo ecclissato fra le righe, la stessa audizione scritta delle Entrate non ha potuto celare che, in realtà, gli atti in scadenza nel 2020 ammontano a 3,7 milioni. Mentre i rimanenti 4,8 milioni non potranno mai creare ingorghi, per il semplice fatto che – lo dice la relazione ufficiale – trattasi di notifiche effettuabili dal 2021 in avanti e dunque fuori dal periodo a rischio Covid-19. Tanto che ad essi neppure si sarebbe applicata la ipotetica proroga biennale. Dov’è il problema?

Fin qui per quanto riguarda i numeri. E, tuttavia, il cuore dello sviamento in termini di comunicazione è altro e più grave. E riguarda l’aver taciuto che la vera “ciccia” su cui agisce la proroga biennale non ha nulla a che vedere né con gli 8,5, né con i 3,7 milioni di atti. Essa riguarda piuttosto quella nicchia nascosta di circa 300mila mila nuovi “accertamenti” che, grazie alla proroga (ora cancellata), avrebbero consentito alle Entrate di far crescere l’ammontare accertato (gravante in primis sulle partite iva) per una cifra di 17 miliardi, al netto di sanzioni e interessi (dato ufficiale consuntivato per il 2018, cfr. pagina 121 dell’Allegato alla Relazione Nadef 2019).

Affermare pertanto che la proroga biennale sia “a favore del contribuente” sembra a dir poco fuori luogo. Se così fosse, d’altro canto, sarebbe bastato riferirla, anziché agli atti di accertamento, ai soli casi di morosità, vale a dire – in termine tecnico – ai casi di liquidazione ex articolo 36-bis.

Non dimentichiamo che sono soprattutto i predetti 300mila accertamenti sostanziali ad alimentare il vero bazooka anti-contribuente sparato dalle Entrate a cadenza annuale, beninteso, nel pieno rispetto della legge (in primis sulle partite iva). Con un carico a ruolo che, nel momento del suo minimo storico su base annua (riferibile a quanto da ultimo addebitato nel corso del 2018) è stato pari a 55,6 miliardi  (Fonte: Rapporto di verifica AdER sottoscritto il 4 luglio 2019).

Per essere chiari, gli 8,5 milioni di “atti e comunicazioni” a cui fa riferimento la audizione dell’Agenzia delle Entrate sono tutta un’altra storia, fatta di atti molto più innocui rispetto ai famigerati 300mila “accertamenti” annui. Ciò soprattutto poiché, a differenza di questi ultimi, gli 8,5 milioni di atti non aggiungono un euro al dovuto, rispetto a quanto precedentemente già dichiarato dal contribuente, essendo essi in sostanza costituiti da solleciti di pagamento indirizzati verso chi aveva omesso il versamento, o ne aveva effettuato uno tardivo o insufficiente (cosiddetti “avvisi bonari” in gergo chiamati “36-bis”).

Tornando alla audizione del 22 aprile scorso il Capo dell’Agenzia delle Entrate ha anche lasciato intendere, per implicito, che il paventato intasamento degli 8,5 milioni di atti da notificare in concomitanza con il periodo Covid-19 evidenzierebbe rischi di criticità per i contribuenti. E di fronte al filo di preoccupazione manifestato dal Presidente, il Capo delle Entrate ha rincarato avvertendo come gli atti complessivamente da notificare nel residuo 2020 in realtà sarebbero “molti, ma molti di più” degli 8,5 milioni. “Ci tenevo a precisare”, ha ammonito il Direttore, che la proroga biennale era stata pensata “a tutela dei contribuenti” e che, pertanto, se proprio all’AdE verrà chiesto di concentrare nel 2020 tutti gli 8,5 milioni di notifiche, “noi non abbiamo problemi essendo in grado di farlo”.

Il punto che qui si vuole rimarcare non è pertanto se la proroga sia da fare oppure no. Ciò che fa specie è che agli ignari parlamentari – su cui ricade questa cruciale responsabilità – siano state date in pasto informazioni parziali e sbagliate.

D’altro canto, se sei un tributarista te ne accorgi subito che c’è qualcosa di anomalo nella narrazione istituzionale di questa storia. Lo capisci già da come il governo ha scritto il comma 1 dell’articolo 67 del Cura Italia. E, infatti, nella prospettiva di “vendere” e far percepire un inesistente equilibrio di sinallagma fra Fisco e contribuente, il predetto comma 1 arriva a sospendere, sul versante “pro-contribuente”, “i termini relativi alle attività di liquidazione, di controllo, di accertamento” dal 8 marzo al 31 maggio. Ciò senza considerare, tuttavia, che quest’ultima sospensione in realtà, è del tutto fittizia, poiché come ogni tributarista ben sa, queste tipologie di termini scadono tutte al 31 dicembre e mai in corso di anno. Per cui ad essere sospeso in questo caso è stato un termine inesistente.

La sensazione, in definitiva, è che – sottotraccia – questa dcomunicazione fosse fin dall’inizio finalizzata a “trattenere” a tutti i costi l’annualità 2015 fra quelle accertabili oltre l’attuale scadenza di fine 2020. Ciò in quanto il 2015 è il primo esercizio sul quale si esplicano gli effetti della cosiddetta “analisi di rischio” basata sulle giacenze anomale dei conti correnti bancari. Una procedura, quest’ultima, definitivamente sdoganata dalla recente legge di Bilancio 2020 e da cui le Entrate si aspettano un congruo “bottino”, grazie al micidiale meccanismo di inversione dell’onere della prova riguardo alle movimentazioni bancarie, inversione che, però, in caso di proroga sarebbe stata retroattiva di sette-otto anni.

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