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Affitti

Cari universitari sotto le tende, vi spiego perché è sbagliato parlare di caro-affitti

I ragazzi in tenda segnalano un problema reale, che però non è quello del caro affitti, ma dello squilibrio rispetto ai livelli di salari e stipendi. L'approfondimento di Sergio Giraldo

 

Cresce il numero di tende piantate dagli studenti davanti alle sedi delle università e cresce anche il numero di città universitarie in cui la protesta prende piede. Ormai sono una dozzina i centri urbani, piccoli e grandi, nei quali gli studenti fuori sede inscenano l’originale rimostranza contro il costo degli alloggi, lanciata dalla studentessa del Politecnico di Milano Ilaria Lamera.

Con l’allargarsi della mobilitazione c’è da sperare che questa non finisca condita da un piatto di nuove Sardine, che inneschino una deleteria deriva da scontro generazionale. I ragazzi in tenda segnalano infatti un problema reale, che però non è quello che loro stessi, molti media e certa politica si sono affrettati ad etichettare “caro affitti”.

IL VERO PROBLEMA DEGLI AFFITTI

Parlare di caro-affitti significa orientare la discussione puntando l’attenzione sulla casa e sui proprietari, che forse a un certo côté piace raffigurare come cinici arricchiti, impegnati ad accumulare con cupidigia lacere banconote. Una narrazione ispirata a Charles Dickens e puntata sull’enfatizzazione di una ipotetica causa (l’affitto “troppo alto”) che provoca un maligno effetto (l’impossibilità o l’estrema difficoltà di avere un’istruzione universitaria).

Peccato che questa descrizione ponga quale causa ciò che in realtà è un effetto. Il problema non è che gli affitti siano alti in assoluto, ma che siano alti rispetto ai livelli di salari e stipendi. Gli affitti delle case nelle città universitarie riflettono condizioni di mercato, il mercato del lavoro no. È da questa plateale asimmetria che nasce il problema. Il potere di acquisto di salari e stipendi è drammaticamente calato negli ultimi anni. Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari annui medi tra il 1991 e il 2020 sono addirittura scesi in termini reali (del 3,5%): in Germania sono aumentati del 33%. Nel nostro paese, nel 2022, a fronte di una crescita nominale del 2,3% dei salari, la crescita più bassa di tutta l’Unione europea, l’inflazione è stata dell’8,1%. Il tracollo dei redditi reali spiega in buona parte perché oggi molte cose costino “troppo”. Abbiamo già parlato, qui, ad esempio, della salita dei prezzi medi delle automobili, che in pochi anni sono aumentati del 45%. Se lo stipendio di mamma e papà, entrambi lavoratori, non basta per mandare il figlio a studiare a Bologna c’è un problema di reddito, non di affitto.

Dunque, il problema è più ampio e non riguarda il caro (affitti) ma il calo (del potere di acquisto). Stretto fra inflazione, pressione fiscale e deflazione salariale indotta dalla rigidità della moneta unica, il potere d’acquisto degli italiani ha subito con il tempo un drammatico regresso. Di questo conto devono entrare a far parte anche i tagli della spesa pubblica sui servizi come la sanità, i trasporti collettivi, l’istruzione, che sono una forma di reddito per il cittadino, almeno fino a che costano meno del privato. Ad oggi, poi, ci sono 112 contratti collettivi nazionali scaduti ancora da rinnovare, con circa sette milioni di lavoratori interessati.

IL CONTRIBUTO DELL’AUSTERITÀ

Non può sfuggire a questa analisi, per quanto rapida, il fatto che non si siano fatti molti investimenti pubblici per via dell’austerità a cui questo paese è sottoposto da trent’anni. Tra il 1995 e il 2019 i conti pubblici italiani hanno sempre mostrato un avanzo primario (differenza tra entrate e uscite pubbliche misurata in percentuale sul Pil), a parte l’eccezione del 2009. Il patto di stabilità e crescita europeo, la cui riforma è in discussione a Bruxelles, è una camicia di forza depressiva per l’economia e regressiva fiscalmente. Quindi se, nonostante la legge n.338 del 2000 sull’edilizia residenziale per studenti, regioni e comuni non hanno sviluppato seri progetti è anche perché il patto di stabilità interno tra stato centrale ed enti locali (conseguenza di quello europeo) ha fortemente limitato, quando non impedito, la possibilità di fare investimenti. Adesso il PNRR mette a disposizione 300 milioni per gli alloggi per studenti: cioè l’Europa che ci proibiva di fare debiti per edilizia pubblica e per studenti ora, bontà sua, ce lo permette.

In tutto ciò, la sinistra ha buon gioco nell’invocare misure eccezionali, espropri, requisizioni e tetti agli affitti. Una suggestione, quest’ultima, a cui anche qualcuno nel centro destra sembra non essere alieno: c’è da sperare che l’esperienza dell’inutile price cap sul gas sia servita a capire che non ci potrebbe essere niente di peggio.

La sinistra offre soluzioni punitive della proprietà della casa, non solo per additare un facile bersaglio, ma soprattutto per nascondere il ruolo avuto in dieci degli ultimi dodici anni, in cui ha governato. La grande sottrazione sta lì: nel jobs act e nell’erosione del potere di acquisto conseguenza della cieca adesione al modello europeo, che frena la domanda interna, tiene bassi i salari e impone austerità nei conti pubblici. Il problema degli studenti fuori sede è in realtà un problema di potere d’acquisto di salari e stipendi e si risolve riequilibrando una bilancia che da troppo tempo è fuori scala.

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