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Vi racconto la guerricciola di Di Maio e Salvini alla Banca d’Italia

I Graffi di Damato

 

Prima ancora di contrariarsi per l’inattesa vittoria del rapper italo-egiziano Mahmood al festival canoro di Sanremo, dove avrebbe preferito – parola di twitter – il romano Ultimo, per fortuna solo di nome, Matteo Salvini si era forse contrariato dello spazio dedicato dalle cronache dei giornali, e un po’ anche dagli analisti politici, al suo pur collega di partito e amicissimo Giancarlo Giorgetti. Che nell’ultima seduta del Consiglio dei Ministri, verbalizzandone la discussione come sottosegretario alla Presidenza, aveva condiviso il dissenso del ministro dell’Economia Giovanni Tria dal veto del vice presidente grillino Luigi Di Maio alla conferma di Luigi Federico Signorini per altri sei anni a vice direttore della Banca d’Italia. Ma soprattutto aveva contestato la motivazione data da Di Maio, e sostanzialmente condivisa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte: la necessità di mandare un segnale chiaro di cambiamento contro uomini, istituti, posizioni e quant’altro identificabili col “sistema”.

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“Così non arriviamo neppure a fine mese”, era stato sentito mormorare Giorgetti nella sala consiliare di Palazzo Chigi dopo avere interrotto il professore Conte che considerava praticabile la strada del cambiamento -che è la cifra del famoso contratto di governo- andando avanti per “tentativi”. Il prossimo, di tentativi, sarà forse contro il direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi, di cui scadrà il mandato a maggio. Rossi probabilmente sarà considerato emblematico del “sistema” ancora più di Signorini, anche se quest’ultimo ha avuto la disavventura di essere conosciuto meglio in Parlamento per avere avuto, fra i suoi compiti, quello di essere ascoltato nelle commissioni di Montecitorio e di Palazzo Madama come rappresentante dell’istituto di via Nazionale.

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Alla luce di quanto è accaduto nella seduta del Consiglio dei Ministri sulla situazione interna alla Banca d’Italia, alla cui protezione è sempre stato attento il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come sperimentò a suo tempo l’allora segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi mancando l’obiettivo di non fare confermare alla scadenza del mandato il governatore Ignazio Visco, ha destato una certa sorpresa la decisione del vice presidente leghista del Consiglio Salvini di correre a Vicenza, ospiti entrambi di un’assemblea di ex azionisti di banche popolari venete, per abbracciare l’omologo grillino Di Maio e impugnarne la ramazza contro la Banca d’Italia. Che sarebbe colpevole, come già sosteneva – ripeto – l’altro Matteo, di scarsa vigilanza nel settore del credito al pari della Consob, indicata da Salvini come un’altra postazione da cambiare. Eppure vi è stato appena designato, per la presidenza dopo un lungo vuoto, dal Consiglio dei Ministri l’amico del vice premier leghista e autorevole economista Paolo Savona.

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Il governo, si sa, traballa continuamente fra i numeri della recessione, incidenti diplomatici, gaffe e quant’altro, e le crescenti apprensioni del capo dello Stato, ma la ramazza della sempre ritrovata coppia dei vice presidenti è sempre attiva. Con quali esiti finali si vedrà, perché prima o poi verrà il momento di fare i conti davvero: al più tardi dopo le elezioni europee di maggio, e gli antipasti regionali in Abruzzo, già oggi, in Sardegna e in Basilicata.

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