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Vi racconto la vera storia politica e finanziaria che cela il Ponte Morandi e Autostrade

L'analisi di Lodovico Festa, saggista ed editorialista, fra storia e cronaca a latere del crollo del Ponte Morandi a Genova

La tragica vicenda del ponte Morandi di Genova, al di là delle polemiche spicciole, può, se affrontata con il necessario respiro, contribuire a capire la dimensione complessa dei problemi della storia della nostra Italia repubblicana.

Il ponte crollato in sé sembra quasi rappresentare la sintesi (per la sua arditezza e monumentalità) della fase del grande sviluppo degli anni ’50, e (per le sue fragilità strutturali ormai pienamente disvelate) della fase dei grandi sogni pasticciati degli anni ’60.

Le meravigliose imprese pubbliche e private degli anni ’50 sono frutto anche di un solido potere fondato sulla Dc dell’Eni, dell’Iri, della programmazione dello sviluppo industriale e garantito anche dagli ultimi nittiani (Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, parte di Bankitalia) che vollero guidare un’autonoma crescita nazionale senza arrendersi al liberal-azionismo piemontese che considerava l’Italia (troppo cattolica) un soggetto da commissariare dall’alto e dall’estero. Le coraggiose ma sfortunate riforme del centrosinistra (ben simbolizzate dal ponte Morandi) poggiavano su visioni mirabolanti ma con progetti dalle basi politiche, sociali e istituzionali non sufficientemente solide per affermarsi concretamente con la conseguente lunga crisi degli anni ’70 e un’altra stagione, quella degli anni ’80, ricca di obiettivi in sé giusti ma privi anch’essi dell’adeguata forza (e lucidità) per prevalere.

E arriviamo così agli anni ’90 quando la crisi del nostro Stato si consuma e si esplicita innanzi tutto grazie alla surroga che la magistratura, prima quella milanese poi quella più legata all’Fbi, esercita sulla politica e grazie soprattutto alla rinuncia delle forze “costituenti” risparmiate dalla mattanza giustizialista (ex Pci ed ex sinistra Dc) a impegnarsi a ricostruire istituzioni adeguate alla “nuova stagione”, quella che incuberà vicende tipo il ponte Morandi.

Alla fine il potere decisivo che ha determinato la “fase” post ‘ 92 è stato quello del Quirinale. La presidenza della Repubblica era stata pensata dalla nostra Costituzione anche come organismo di compensazione tra il Parlamento (un po’ troppo spesso condizionato dal più forte partito comunista dell’occidente) e il sistema di alleanze internazionali (innanzi tutto gli Stati Uniti ma senza dimenticare il Vaticano).

Esaurita la sua funzionalità atlantica, la figura del capo dello Stato ha assunto, ma senza più la razionalità determinata dalle logiche della Guerra fredda, un ruolo analogo rispetto all’Unione europea. E così mentre la Germania e la Francia (legittimate a essere ben più “sovraniste” rispetto agli altri stati membri della Ue) hanno avuto capi di Stato, banche centrali, e corte costituzionali che vigilavano e vigilano sugli interessi e i diritti nazionali, l’Italia ha avuto capi di Stato, banche centrali, corte costituzionali che troppo spesso sono parsi concentrare la loro attenzione essenzialmente nel difendere gli interessi (e i diritti) nazionali tedeschi e francesi.

Tutto ciò ha avuto bisogno di un’ideologia, in continuità con il citato liberalazionismo piemontese, ben espressa da Carlo Azeglio Ciampi (ma sostanzialmente assunta da tutti gli inquilini del Quirinale post ’92) secondo il quale l’italiano era un popolo inadatto a essere troppo autonomo e andavano ingabbiato da vincoli rigidi gestiti da popoli (e stati) meglio organizzati. Ha avuto bisogno di un mito (alimentato nella stagione di fine anni ’90) per cui la finanza globale e l’Unione europea avrebbero risolto tutti i problemi della politica, dell’economia e della società. E ha potuto contare su una particolare base sociale: sostanzialmente quella che si può definire la nostra borghesia vendidora ( la definizione classica sarebbe borghesia compradora, ma Giulio Sapelli l’ha rititolata così per spiegare più chiaramente l’elemento essenziale dei suoi comportamenti) che ha avuto come espressione centrale una personalità (peraltro tentativi diversi e analoghi sono stati messi in atto anche da altri: ultimo Matteo Renzi e la sua cricca splendidamente definita da Rino Formica “a chilometro zero”) come quella di un Romano Prodi pienamente in grado per esperienze, formazione, relazioni, rete di sue società, di intrecciare obiettivi simil-affaristici, alienazione di interessi nazionali e propaganda politica sull’efficacia e sulla moralità di simili scelte, agendo peraltro anche sull’insieme della scena globale. Ma lasciando il suo segno fondamentale in Italia: dalle banche alle telecomunicazioni, dal petrolio agli armamenti, con quella perla che è la privatizzazione alla Menem-Eltsin-Prodi (altra definizione di Sapelli) che sono le autostrade vendute ai Benetton.

Privatizzazioni che appunto come nell’Argentina di Carlos Menem e nella Russia di Boris Eltisn non hanno generato public company, seri nuovi mercati, un completo sistema di autorità vigilanti, nuova decisionalità nazionale, coordinamento tra finanza nazionale e sviluppo industriale come i Cuccia e i Mattioli nel Secondo dopoguerra fecero in parte rilanciando la nostra industria privata, o come le scelte di Margaret Thatcher o analoghe di partiti moderati scandinavi, bensì hanno dato vita a posizioni di rendita, ad asimmetriche influenze straniere ( i francesi hanno acquisito poderose posizioni di controllo nella finanza e nell’industria italiana mentre hanno impedito che venisse acquisita persino la Danone), a un intreccio affaristico-politico in sé deleterio ma perdipiù strutturalmente subalterno a sistemi di influenza straniera.

Il risultato di questa fase 1992- 2018 largamente pilotata (grazie anche alla fragilità politica di personalità come Silvio Berlusconi) dai presidenti della Repubblica è stato uno sfacelo dello Stato simile a quello del ponte Morandi: con il risultato che alla fine pure la sinistra e un certo centro politico (i cantori del “corso” vendidore) sono finiti senza voce perché tentare di fare i piccoli gollisti senza uno stato come quello francese o i merkelliani senza la centralità della Germania sul vecchio continente, è peggio che sbagliato, è ridicolo. La speranza nel progresso infinito è evidentemente in crisi.

La borghesia vendidora ha venduto così tanto da aver indebolito molto le sue risorse politiche. Resta il teorema degli italiani incapaci di amministrarsi e che devono dunque arrendersi a essere colonizzati: un programma (gestito oggi dal cosiddetto fronte repubblichino/repubblicano) non privo di efficacia ma difficile da esplicitare (la prospettiva di diventare un popolo di camerieri e giardinieri è perseguibile ma non razionalizzabile) che può finire per caderti addosso proprio come un “ardito” viadotto.

Per qualche mese ( e se regge una sponda americana) forse resterà un’alternativa possibile a questa pur solida pulsione alla resa (e alla disgregazione): la borghesia produttiva minore (artigiani e piccola e media impresa) ha trovato il modo per rappresentarsi (pur con molte contraddizioni) nella Lega, il popolo degli abissi (millenial disperati, protesta senza proposta innanzi tutto del sud, arrabbiati di vario tipo anche altoborghese) si è espresso attraverso il grillismo, la cui peraltro capacità di articolare un programma ha le stesse probabilità di realizzarsi di quelle che ha un gatto di sopravvivere in una tangenziale.

In qualche modo, comunque, il fallito tentativo giolittiano di allargare le basi sociali dello Stato italiano ai liberi e forti di Luigi Sturzo e alle plebi socialiste (peraltro organizzate intorno a un solido nucleo intellettuale e operaio su cui per un buon periodo regge l’egemonia di Filippo Turati) pare riproporsi oggi sia pure con ben minore rigore politico culturale rispetto all’inizio del ‘900. Il problema sarebbe trasformare questa occasione (in sé – come si è detto- non priva di rilevanti aspetti precari) anche in un serio processo costituente: riprendendo il tema del presidenzialismo perché i tempi moderni richiedono una verticalizzazione del potere, organizzando un quadro istituzionale che garantisca insieme lotta a corruzioni e mafie ancora esorbitanti senza replicare però quelle surroghe alla magistratura che -come è ormai evidente- hanno corroso il nostro Stato liberaldemocratico.

Vi è poi la questione della riforma di un’Unione europea giunta alla fase “Cacania” di decadenza finale ben rappresentata dal Jean-Claude Juncker. Ma decisiva è anche la riforma federalista dello Stato italiano: questo punto, che peraltro si intreccia anche alla moria di viadotti di cui il ponte Morandi rappresenta l’episodio più clamoroso, richiede una riflessione a sé che conto di affrontare successivamente.

Senza l’orizzonte di una nuova fase costituente che dia una prospettiva alla borghesia seriamente (anche se molto timidamente) nazionale e a quei settori di cultura socialista che non si sono arresi ( o non vogliono più arrendersi) alla vastamente diffusa borghesia vendidora (con contorno di ampi e miserevoli resti dell’establishment che fu), temo che il day by day del governo Conte non abbia molte prospettive. E sarà bene che chi ha meno di 70 anni, si metta a studiare il tedesco se non il mandarino.

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