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Coesione

Le politiche Ue di coesione sono un fallimento per l’Italia. Report Truenumbers

In generale, le politiche di coesione dell'Unione europea hanno funzionato, ma non per l'Italia. Ecco perché: l'analisi di Truenumbers.

Se fosse solo per l’Italia potremmo dire che uno dei principali obiettivi dell’esistenza stessa dell’Unione Europea, forse il più importante, è stato miseramente fallito. Si tratta della convergenza tra le economie e i tenori di vita dei diversi territori della Ue, che da decenni viene perseguita attraverso le politiche di coesione. Rappresentano una delle principali voci di bilancio per il budget europeo, in quello del 2021-2027 circa 392 miliardi sui 1.211 miliardi complessivi (prezzi 2021) sono allocati proprio a tale scopo. Ma non sono serviti (quasi) a niente

Perché le politiche di coesione non hanno funzionato

Nel tempo sono stati creati diversi fondi per indirizzare verso obiettivi specifici questo denaro. Vi è il Fondo di Coesione, che vale 48 miliardi; riguarda i Paesi dell’Est della Ue più Portogallo, Grecia, Malta e Cipro e punta a finanziare infrastrutture e politiche ambientali per rafforzare a livello strutturale tali aree con Pil più basso della media. Esiste poi il Fondo Sociale Europeo, Fse, oggi Fse Plus perché include anche fondi minori un tempo distinti, che è il primo istituito e mira a erogare risorse per finanziare investimenti in occupazione, società, istruzione e competenze. Ammonta, tra 2021 e 2027, a 99,3 miliardi. La maggioranza del denaro, 226 miliardi, però, proviene dal Fondo per lo Sviluppo Regionale Europeo, Fsre.

Come le regioni europee sono distinte in base alle politiche di coesione

La particolarità del Fsre è che connota in senso regionale le politiche di coesione, perché le sue risorse consistono in progetti approvati a Bruxelles ma gestiti dalle singole regioni e negli ultimi decenni sono state indirizzate in modo asimmetrico, ovvero non in base agli abitanti, ma al Pil pro capite Ppa (a parità di potere d’acquisto). È arrivato, e arriva, più denaro a quelle regioni nelle quali questi valori sono più bassi.

Le regioni europee sono infatti divise in tre categorie:

  • Più sviluppate, in cui il Pil pro capite Ppa è superiore alla media Ue (superiore al 90% della media nel budget 2014-2020)
  • In transizione, in cui è tra il 75% e il 100% di tale media Ue (tra 75% e 90% nel nel budget 2014-2020)
  • Meno sviluppate, in cui è inferiore al 75% della media

Per esempio, nel caso italiano alle regioni meno sviluppate, Basilicata, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia, sono andati nello scorso bilancio Ue (2014-2020) ben il 69% delle risorse allora stanziate per le politiche di coesione. A quelle in transizione, allora Abruzzo, Molise e Sardegna, il 4,5% e a quelle più ricche della media Ue, tutte le altre del Centro-Nord solo il 23,2%, nonostante qui abiti la maggioranza della popolazione. Lo stesso è avvenuto in altri Paesi e naturalmente questo ha comportato il fatto che il maggior beneficiario di questi fondi sia stata la Polonia, seguita da Italia, Spagna e Romania, le cui regioni hanno ricevuto più fondi di quelle tedesche, anche se è la Germania il Paese più popoloso.

Ma il punto fondamentale è: queste politiche di coesione ha funzionato? In generale sì, ma per l’Italia no.

Le politiche di coesione non funzionano nel Mezzogiorno

Un report di Istat, che utilizza dati di Eurostat, evidenzia che cosa è accaduto dall’inizio del nuovo millennio nella Ue. I 21 anni esaminati, tra il 2000 e il 2021, sono stati caratterizzati effettivamente da una riduzione del divario tra la vecchia Europa Occidentale, già sviluppata, e le aree inizialmente molto più povere dell’Est, che sono entrate nell’Unione Europea nel 2004.

Sostanzialmente tutte le regioni della Polonia, della Romania, dei Paesi Baltici, dell’Ungheria che nel 2000 avevano un Pil pro capite Ppa inferiore alla media europea hanno visto un aumento annuo del Pil stesso superiore al valore medio tra 2000 e 2021. È esattamente quello che le politiche di Coesione si proponevano. Viceversa gran parte delle regioni che avevano un prodotto interno lordo pro capite superiore a quello medio Ue, in gran parte occidentali, hanno avuto una crescita più bassa, come ci si aspetterebbe da aree che hanno ormai un’economia matura.

A fare eccezione a questo trend ci sono due tipologie di regioni. Da un lato quelle chiamate “superstar”, che nonostante nel 2000 fossero già più ricche delle altre, sono cresciute comunque più della media in questi anni, ovvero, per esempio quelle dell’Irlanda, le città di Praga, Bratislava, Budapest, il Lussemburgo. Dall’altro quelle definite “in trappola di sviluppo”, che hanno avuto un tasso di crescita più basso della media ed erano in partenza già più povere. È qui che troviamo quasi tutte le regioni greche, alcune portoghesi, il Sud della Spagna e soprattutto il nostro Mezzogiorno.

Il risultato è quello che vediamo nella nostra infografica.

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I crolli delle regioni italiane nel ranking del Pil pro capite

Il grafico mostra l’andamento, nel ranking di tutte le 242 regioni europee destinatarie delle politiche di coesione europee (cioè, soldi) in base alle programmazioni settennali (ogni 7 anni si decide quanti fondi destinare ad ogni regione). Quindi, per esempio, Nel ciclo di programmazione 2000-2006 l’Emilia Romagna era al 29esimo posto, è scesa al 44esimo nel ciclo di programmazione 2007-2013, al 50esimo nel ciclo di programmazione 2014-2020 e nel 2023 è al 54esimo.

Il risultato è impietoso per tutte le regioni: per tutte, infatti, vi è un peggioramento e questo coinvolge anche le regioni del Mezzogiorno che già erano in fondo al ranking. La Calabria è passata dal 182esimo al 214esimo posto, la Sicilia dal 173esima al 208esimo, la Campania dal 165esimo al 201esimo.

Le variazioni in negativo più ampie, però, riguardano Umbria, Toscana e Piemonte. La prima passa dalla 75esima al 137esima posizione, di fatto transitando dal gruppo delle regioni con Pil pro capite sopra la media a quelle con Pil pro capite inferiore. La Toscana, poi, passa dalla 51esima posizione alla 99esima e il Piemonte dalla 44esima alla 91esima. Male anche il Lazio, che era al 23esimo posto e ora è al 67esimo. Se nel caso piemontese il maggiore declino è stato negli anni 2000, in quello laziale si è verificato tra il 2007-13 e il 2014-2020.

Questi dati ci servono anche per capire come cambia la geografia dello sviluppo delle diverse regioni italiane. È evidente come, per esempio, il Piemonte, una volta traino dell’industrializzazione del Paese, abbia perso posizioni di fronte ad altre aree che una volta superava in Pil pro capite e da cui oggi è invece superato, come Liguria e Friuli Venezia Giulia. Quest’ultima, anzi, nel 2021 ha visto una risalita nel ranking europeo rispetto al periodo immediatamente precedente.

Si salvano Basilicata e Provincia di Bolzano

A cavarsela relativamente meglio degli altri è la Basilicata, che, rispetto al 2000-2006, ha perso 12 posizioni, ma rispetto al 2007-2014 solo una, e nel 2021 ha avuto un recupero. Oggi è ancora più distante dalle altre regioni meridionali, che nel frattempo sono divenute molto più povere.

L’esempio più virtuoso, però, è quello dell’area del Paese che non a caso possiamo definire la meno italiana, la provincia autonoma di Bolzano. Nel 2000-2006 era al 14esimo posto nella Ue per reddito pro capite, è scesa poi al 16esimo e in seguito al 17esimo posto, rimanendo anche nel 2021 su questa posizione. Si tratta di un peggioramento molto limitato, che allarga il divario tra l’Alto Adige e il resto del Paese.

Troppo poco, comunque, come consolazione. I numeri denotano come nel caso dell’Italia le politiche di coesione siano di fatto fallite, oggi a livello di sviluppo nella Ue siamo certamente più vicini all’Est Europa e più lontani da quel nucleo originario dell’Europa Occidentale di cui facevamo parte fin dagli anni ’50.

I dati si riferiscono al: 2000-2021
Fonte: Istat

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