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Il mitico ceto medio è il toccasana per le finanze pubbliche

Storie, numeri e paradossi sul fisco italiano. La lettera di Michele Magno

Caro direttore,

come è noto, nel sistema fiscale italiano le aliquote Irpef non sono indicizzate all’inflazione. Se quindi l’inflazione è alta, continuiamo a pagare la stessa aliquota sebbene il reddito reale sia diminuito. Se invece riceviamo un aumento di salario per compensare -del tutto o in in parte-l’inflazione, è alta la probabilità di finire in uno scaglione più alto e pagare così più tasse. Questo succede perché per il nostro fisco conta il reddito nominale e non quello reale. Più guadagni, più paghi.

È ciò che è accaduto negli ultimi anni. Gran parte degli aumenti contrattuali e della rivalutazione delle pensioni è finita nelle casse statali. Fenomeno che ha colpito soprattutto il mitico “ceto medio”, che continua a funzionare da toccasana per le finanze pubbliche. Negli ultimi quattro anni, l’Irpef è aumentata di circa trentasette miliardi. Il rapporto 2025 dell’Ufficio parlamentare di bilancio stima che il fiscal drag abbia inciso per ventuno dei trentasette miliardi di crescita dell’Irpef tra il 2020 e il 2024. Chi guadagna tra i 35mila e i 70mila euro, nel 2024 ha pagato quasi i due terzi di tutta l’Irpef incassata dallo Stato. Parliamo dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (le partite Iva con il regime forfettario godono della flat tax).

Così, “tomo tomo e quatto quatto” (come direbbe Totò), il governo riesce a bucare le tasche dei  contribuenti. La pressione fiscale aumenta (nel 2024 è arrivata al 42,6 per cento), però si vanta di aver abbassato l’imposizione grazie al taglio del cuneo fiscale. Solo che questo taglio è stato finanziato proprio dal maggiore gettito derivante dal fiscal drag. Per bloccare questo meccanismo perverso, l’unica soluzione sarebbe alzare periodicamente i limiti degli scaglioni Irpef in proporzione all’inflazione.

È già stato fatto negli anni Ottanta, quando per sterilizzare il fiscal drag si indicizzarono gli scaglioni Irpef e le detrazioni all’inflazione. Fino al 1984 anche i salari erano indicizzati automaticamente all’inflazione con la scala mobile. Poi l’adeguamento fu gradualmente ridotto, fino a essere abolito nel 1992. Oggi, i salari vengono adeguati all’inflazione con i rinnovi dei contratti collettivi. Ma le aliquote Irpef non sono indicizzate all’aumento dei prezzi, e quindi i lavoratori pagano più tasse.

Molti paesi dell’area Ocse, in realtà, hanno già meccanismi che permettono di aggiornare automaticamente le aliquote delle imposte sui redditi e le detrazioni in base all’inflazione. Nel 2022, 17 paesi avevano sistemi di questo tipo. L’ultimo a farlo, quest’anno, è stata la Francia.

Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha detto che il governo vuole “mitigare” gli effetti paradossali del drenaggio fiscale. Impresa ardua. Non solo perché il sistema fiscale italiano è un castello complicatissimo di norme, deroghe, bonus e detrazioni, frutto di leggi su leggi aggiunte di volta in volta dal governo di turno. Ma soprattutto perché sterilizzare il fiscal drag significherebbe rinunciare all’aumento delle entrate fiscali che in questi anni ha permesso di mettere un po’ in ordine i conti pubblici.

È anche grazie al drenaggio fiscale, infatti, che il governo Meloni è riuscito ad anticipare al 2026 la riduzione del rapporto tra deficit/Pil. D’altronde, se la rivista britannica “The Banker” ha nominato Giancarlo Giorgetti “ministro delle Finanze dell’anno”, non è certo perché ha tagliato le tasse. Ma perché è riuscito a contenere il deficit. Con buona pace del ceto medio.

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