Questa mattina l’Istat ha reso nota la stima preliminare di crescita del Pil nel quarto trimestre 2018: -0,2% rispetto al trimestre precedente e +0,1% rispetto al quarto trimestre 2017.
Nulla di nuovo rispetto a quanto già previsto da Banca d’Italia nel suo bollettino economico del 18 gennaio e quanto già noto osservando tutti gli indici anticipatori sulla fiducia delle imprese già dai primi mesi del 2018.
È subito partito l’imbarazzante valzer delle dichiarazioni e dei tweet di ogni parte politica. Un rumore di fondo che non aiuta a capire cosa sia accaduto e, soprattutto, cosa stia per accadere al nostro Paese.
Un commento deve necessariamente passare dall’analisi delle componenti del risultato e da un minimo di analisi in prospettiva dei dati.
Cosa ha determinato la decrescita del Pil? I consumi privati, quelli pubblici, gli investimenti o la domanda estera? Il comunicato Istat afferma che “dal lato della domanda, vi è un contributo negativo della componente nazionale (al lordo delle scorte) e un apporto positivo della componente estera netta”.
Si conferma quindi la tendenza in atto già da qualche mese che vede il nostro Pil rallentare sia per il minor contributo della domanda estera, che resta positivo ma rallenta e sia soprattutto per il calo degli investimenti privati (-1,1% nel terzo trimestre), soprattutto in beni strumentali (-2,8%). Il tutto in un contesto di perdurante stagnazione o lieve riduzione dei consumi.
Nel corso del 2018 sono progressivamente venuti meno i due principali motori di spinta della crescita del Pil che dovrebbe attestarsi a 0,8% dopo 1,6% del 2017:
- La domanda estera, a causa del netto rallentamento del commercio mondiale connesso alle note tensioni tra Usa e Cina.
- Gli investimenti dei privati in beni strumentali che erano stati incentivati dai provvedimenti agevolativi denominati superammortamenti ed iperammortamenti, dei quali Bankitalia stessa ammette il decisivo ruolo.
Ma ci sono altri due aspetti da sottolineare:
- Come sottolineato anche oggi dal Financial Times, il rallentamento ed, in alcuni casi, la decrescita del Pil sta interessando tutta l’Eurozona. In particolare, la Germania si sta ora rendendo conto che un surplus di bilancio pubblico di €60 miliardi o 1,8% del Pil è un freno all’economia (sua e di quella dei paesi vicini), e sta frettolosamente correndo ai ripari. Curiosamente (si fa per dire…), il Regno Unito è uno dei pochi paesi la cui crescita per il 2019 non è stata tagliata dal Fondo Monetario Internazionale, essa è stata confermata al 1,4% per il 2018 ed al 1,5% per il 2019, e nel 2019 farà addirittura meglio della Germania, la cui crescita è prevista scendere dal 1,5% del 2018 al 1% del 2019.
Some are surprised that Germany is slipping into recession. They should not be. Longer-term forces diminishing the German giant are feeding the current slowdown. This is economic–and political–news for Europe. https://t.co/HPMk8uEUk4 @MarketWatch @WilsonSchool @OUPEconomics
— Ashoka Mody (@AshokaMody) January 30, 2019
- Tale stato di cose è il risultato di un’onda lunga partita quasi un anno fa, con il progressivo deteriorarsi del clima di fiducia da parte delle imprese in tutta l’Eurozona, così come ripetutamente sottolineato sempre dal quotidiano inglese ed anche, immodestamente, da chi vi scrive.
Se questa è l’analisi dei fenomeni che hanno determinato la dinamica della crescita nel nostro Paese, è necessario affrancarsi il più rapidamente possibile dal modello di politica economica che ne è alla base, fatto di rigore di bilancio, stagnazione della domanda interna, inflazione irrisoria, alta disoccupazione e quasi esclusiva attenzione verso le esportazioni.
Bisogna togliere i freni tuttora imposti dalla Ue ad un adeguato ruolo della politica fiscale e sfruttare finalmente le potenzialità del mercato interno dell’Unione che avrebbe dovuto essere la panacea soprattutto per proteggerci da eccessive oscillazioni della congiuntura internazionale, ma che non riesce ancora ad offrirci i benefici a lungo promessi e ci costringe invece a scrutinare con ansia i dati dei consumi di lande sperdute dall’altra parte del globo, nella speranza che non rallentino e ci mandino in recessione.