I dati odierni confermano il rallentamento dell’economia italiana. Nel 2018, la crescita del Pil, specie in termini nominali, è stata inferiore alle attese, il che aumenta i rischi sui target di finanza pubblica per l’anno in corso (il trascinamento negativo dall’anno scorso è di due decimi sul deficit e quasi mezzo punto sul debito).
LE TENDENZE DELL’ECONOMIA
La tendenza per l’economia non sembra migliorata nei primi mesi del 2019, che hanno visto una risalita della disoccupazione e un ulteriore calo degli indici di fiducia delle imprese. Ciò fa salire il rischio che l’attesa ripresa dell’attività economica non si materializzi nemmeno in primavera.
I DATI PEGGIORI DELLE ATTESE
I dati annui su Pil e indebitamento netto della PA nel 2018 sono stati peggiori delle attese: L’anno scorso, il Pil è cresciuto di 0,9% in volume (in termini non corretti per i giorni lavorativi). Tale stima è lievemente inferiore all’1% non corretto per gli effetti di calendario comunicato dall’Istat in occasione della diffusione della stima preliminare sul 4° trimestre dell’anno lo scorso 31 gennaio. Il dato si confronta con l’1,6% del 2017.
DOSSIER PIL
Il Pil a prezzi di mercato è aumentato di 1,7% (dopo il 2% del 2017). Il dato è inferiore alle nostre stime. Sia il Pil nominale che quello reale sono inferiori alle ipotesi assunte dal governo nel più recente quadro programmatico di finanza pubblica (PIL reale 0,9% vs 1%, Pil nominale 1,7% vs 2,1%). Come atteso, la crescita (reale) è venuta dalla domanda interna, che ha contribuito per l’1% (al netto delle scorte), mentre il commercio con l’estero ha dato un apporto negativo (di un decimo).
IL CAPITOLO DOMANDA INTERNA
Dal lato della domanda domestica, si nota un rallentamento sia dei consumi che degli investimenti (da 1,1% a 0,5% e da 4,4% a 3,4%). Questi ultimi comunque hanno dato il contributo più alto al Pil e hanno mantenuto un buon ritmo di crescita grazie all’accelerazione delle costruzioni e della spesa in macchinari, mentre è rallentata (pur mantenendo un’espansione a due cifre) la componente dei mezzi di trasporto. Proprio in conseguenza della minore crescita nominale, i principali indicatori di finanza pubblica risultano peggiori del previsto. Il rapporto deficit/Pil è stato pari al 2,1%, contro l’1,9% incluso nello scenario programmatico del governo (sia pur in miglioramento rispetto al 2,4% del 2017). Lievemente peggiore delle attese anche l’avanzo primario, salito all’1,6% del Pil dopo l’1,4% dell’anno precedente (l’obiettivo governativo era pari all’1,7%). La pressione fiscale, dopo anni di miglioramento, è rimasta stabile, al 42,2%.
COME VARIA IL RAPPORTO DEBITO-PIL
Il rapporto debito/Pil è salito al 132,1%, dal 131,3% del 2017. Il dato si confronta con l’obiettivo governativo di 131,7%. In sintesi, sia il rapporto deficit/Pil che il rapporto debito/Pil sono risultati più alto del previsto (di due decimi e di quattro decimi rispettivamente). Ciò soprattutto a causa della crescita inferiore al previsto del Pil ai prezzi di mercato. Ciò, ceteris paribus, peggiora il percorso tendenziale di finanza pubblica per l’anno in corso. Solo per via del trascinamento dall’anno precedente, nel 2019 il deficit potrebbe salire al 2,2% (contro il target del 2%), e il debito potrebbe attestarsi al 131,1% (invece che al 130,7% come da obbiettivo governativo). Tuttavia, il consuntivo 2019 potrebbe essere peggiore laddove si considerino ipotesi più realistiche sulla crescita.
ALTALENA PIL
Con un Pil in aumento di 0,6% (che coincide con lo scenario inerziale sulla base del quale sono state fatte le previsioni sui ricavi), le conseguenze sarebbero limitate sul deficit (che potrebbe essere contenuto al 2,1% grazie all’utilizzo del fondo di 2 miliardi previsto dall’accordo con la Ue), ma l’impatto sarebbe significativo sul debito (che potrebbe raggiungere il 132,5%). Con una crescita zero quest’anno, il deficit salirebbe al 2,4% e il debito al 133,5%. La dinamica del debito sarebbe anche meno incoraggiante se il governo non dovesse centrare l’obiettivo ambizioso di un piano di privatizzazioni pari al punto di PIL già quest’anno.
CHE COSA SUCCEDE AL TASSO DI DISOCCUPAZIONE
Il tasso di disoccupazione è salito al 10,5% a gennaio, da 10,4% precedente (rivisto al rialzo dal una prima lettura a 10,3%). L’aspettativa sia nostra che di consenso era per un aumento di un decimo. Tuttavia, la salita è dovuta interamente a una diminuzione del numero di inattivi (-22 mila unità ovvero -0,2% m/m), mentre l’occupazione è aumentata al ritmo massimo dallo scorso agosto (+21 mila unità ovvero +0,1% m/m).
I CONFRONTI
A differenza che nel mese precedente, l’aumento degli occupati è dovuto interamente ai dipendenti permanenti (+56 mila unità, un record da 3 anni), mentre sono diminuiti i dipendenti a termine (- 16 mila) e i lavoratori indipendenti (-19 mila). Il tasso di disoccupazione giovanile è salito ancora, a 33% da un precedente 32,8% (rivisto al rialzo rispetto alla prima stima). In sintesi, i dati di gennaio sono misti: da un lato, aumentano le probabilità di una inversione della tendenza del mercato del lavoro, visto il rallentamento in atto del ciclo; dall’altro, il dato di gennaio è meno brutto di quel che sembra, in quanto mostra un aumento dell’occupazione, per di più stabile. Nel complesso, manteniamo la nostra stima di un calo del tasso di disoccupazione al 10,1% nel 2019 (da 10,6% nel 2018). Ma i rischi sono in aumento.
Infine, il PMI manifatturiero è calato ancora a febbraio, a 47,7 da 47,8 precedente. È vero che il consenso si aspettava una caduta più accentuata (a 47,2), ma si tratta del quinto mese in territorio recessivo. La flessione è dovuta ai nuovi ordini (settimo mese in territorio recessivo), si presume dal mercato domestico visto che gli ordinativi dall’estero rimbalzano sopra il valore-soglia, a 50,5 da 48,1 precedente. Rallentano acquisti e scorte, mentre si nota un recupero per la componente produzione e per l’occupazione. In ogni caso, l’andamento degli indici di fiducia nei primi due mesi del 2019 non segnala un recupero ma anzi una tendenza all’ulteriore affievolimento dell’attività economica. Ciò, dopo un primo trimestre ancora verosimilmente negativo per il Pil, aumenta il rischio che nemmeno nel trimestre primaverile si possa assistere a un ritorno a una fase espansiva.