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Perché sono gli investimenti (frenati anche da Bruxelles) il vero dramma dell’economia italiana

L'analisi di Gianfranco Polillo sugli ultimi dati congiunturali

 

Bene che vada è pura sopravvivenza. Questa la prospettiva non solo dell’economia, ma della società italiana. I dati che si susseguono sembrano bollettini di guerra che annunciano il progressivo ripiegamento. Dall’Istat al centro studi di Confindustria, all’ultimo rapporto Svimez. Quest’ultimo, focalizzato sul Mezzogiorno, ha assunto toni addirittura drammatici. Non solo crescono gli squilibri territoriali, con ampie zone in recessione. Ma questa macchia scura, come una metastasi, continua ad allargarsi. A soffrire non è solo la Campania, che in passato vantava tassi di crescita di tutto rispetto, ma l’Umbria, le Marche ed anche la Toscana, sembrano essere colpite dal vortice della crisi. Resiste il Nord est, quel triangolo che ingloba Milano, Bologna e Treviso – lo abbiamo scritto più volte – che regge, finché lo sostiene il traino delle esportazioni. Ma quanto può durare, con Donald Trump, paladino di “America first”, deciso a proteggere l’industria americana, dalle scorrerie degli altri Paesi concorrenti?

E’ la debolezza complessiva di un “modello di sviluppo” export led. Trainato dalla domanda estera, come dicono gli economisti. Una variabile che è sottratta al controllo della politica economica del Paese. Finché la barca va, c’è uno spiraglio di luce in fondo al tunnel. Ma basta una qualsiasi turbolenza per azzerare ogni progresso. Lo scenario più probabile dei prossimi mesi. Proprio qualche ora fa, il Presidente americano ha annunciato nuovi dazi sulle importazioni dalla Cina. Un altro 10 per cento su un valore di 300 miliardi di dollari. Considerato il pregresso, tutto il commercio tra le due super potenze ricadrebbe nella rete dei dazi. Immediato il riflesso sulle borse, che segnano perdite consistenti. Mentre il prezzo del petrolio subisce una limatura di 8 punti: spia di una possibile recessione.

In economia, comprare il tempo è operazione nobile. E’ necessario per scrutare l’orizzonte ed individuare possibili strategie. Ma in Italia, in questo anno e più di governo, questo secondo tassello, semplicemente, non è esistito. Ci si è trastullati tra ottimismi di maniera e inutili velleità nei confronti dell’Europa, salvo poi portare a casa un pugno di mosche. Che hanno evitato il peggio, vale a dire la “procedura d’infrazione”, ma hanno anche avuto l’effetto di un narcotico. Impedito di impostare una discussione seria con la Commissione europea, per far emergere tutte le contraddizioni di una cura, come quella proposta nei confronti dell’Italia, che non risponde se non proprio alla lettera (ma anche su questo si può discutere) almeno allo spirito dei Trattati.

Questo è l’aspetto più paradossale. In politica estera gli accordi sono rispettati, finché rappresentano un compromesso accettabile tra i diversi contraenti. Ma se, con il trascorrere del tempo, si trasformano in un patto leonino, spetta alla vittima chiedere una rinegoziazione. Non è detto che questo porti al cambiamento auspicato, ma l’Italia non ha nemmeno provato a porre la questione. Si è limitata a fare la voce grossa, commettendo anche qualche errore (la spaccatura nella votazione su Ursula Von Der Leyen), per poi chinare il capo e bere l’amaro calice. Cosa che, con ogni probabilità, si verificherà anche con la prossima legge di bilancio. Quella divisione, in seno al Governo, tra “apocalittici” (coloro che protestano) ed “integrati” (i tecnici del Governo) non regge più. Impedisce una riflessione adeguata sulle cause più profonde della crisi italiana e, quindi, la definizione di possibile strategie. Nascoste dietro parole d’ordine (la ripresa degli investimenti) che lasciano il tempo che trovano.

La consapevolezza della loro scarsa incisività è del tutto evidente. Gli investimenti non riprendono su comando del principe. Quelli pubblici richiedono che si cambino le regole del gioco. L’eccesso di burocrazia, una legislazione che resta ben lontana da un livello minimo di efficienza, nonostante le modifiche introdotte nella legge per gli appalti, ne ritarda l’esecuzione. Con un lag (il ritardo che nelle tecniche di programmazione caratterizza il trascorrere del tempo dal momento della decisone alla realizzazione dell’opera) sempre eccessivo, per avere rilevanza dal punto di vista congiunturale. Si decidono oggi per avere un effetto sulla crescita del Pil né domani, né dopodomani. Ma tra qualche anno. Sempre che ci si arrivi a quella data.

Ancora più critica la situazione degli investimenti privati. Se non c’è domanda di mercato, chiedere alle aziende di investire è come voler vendere ghiaccio al polo nord. Non si rischiano i propri capitali, per rispondere ad un imperativo morale. Sarebbe la negazione di qualsiasi razionalità economica. Ed ecco allora il ristagno: tanto maggiore a seconda del tipo si specializzazione produttiva. Le aziende che esportano, finché è loro concesso, continuano ad adeguare la loro struttura produttiva. Ma quelle che producono per il mercato interno, in stagnazione dal 2012, non possono far altro che tirare i remi in barca, nella speranza che, prima o poi, qualcosa possa cambiare. Le differenze tra il Nord ed il Sud del Paese, così evidenti in tutte le analisi territoriali, soprattutto in questo comparto, ne sono una testimonianza che solo chi non vuol vedere, non riesce a percepire.

C’è poi il dato tutto politico della situazione italiana. La percezione di un’intesa politica, che il tempo ha rapidamente usurato, facendo emergere le divergenze di fondo tra le due componenti. Finché era possibile utilizzare la leva della finanza pubblica per soddisfare la sommatoria delle richieste, poteva anche andare. Male, ma andava. Venuta meno questa base finanziaria, tutto è deflagrato. Ne sono nate geometrie variabili, con i tecnici del Governo chiamati a fare da sponda alle tesi più o meno ardite, tra i due contendenti. Ma queste turbolenze hanno impedito loro, se mai ne avessero avuto voglia, di porsi in modo dialettico con i veri problemi del Paese, per tirar fuori dal cilindro quelle soluzioni strategiche, ch’erano indispensabili. E sulla base delle quali aprire, in Europa, un confronto all’insegna di una serietà scientifica ormai liberata dalle scorie della semplice polemica politica.

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