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Pnrr BEI

Perché solo la Bce (non la Bei) può salvare gli Stati europei dal tracollo

Fatti e ipotesi su tempi e modi dell'Unione europea per evitare il tracollo economico da Covid-19 analizzati da Giuseppe Liturri

Da quando il Consiglio Europeo giovedì sera ha comunicato che “prendiamo atto dei progressi compiuti dall’Eurogruppo. In questa fase, lo invitiamo a presentarci proposte entro due settimane”, è partita la caccia alle “proposte”. L’obiettivo è quello di giungere a concludere qualcosa per il prossimo Eurogruppo del 7 aprile. Ieri sera il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, al termine di una videoconferenza con Christine Lagarde, Ursula Von der Leyen e Mario Centeno, ha dichiarato “è tempo di pensare al di fuori degli schemi, dovrebbe essere considerata qualsiasi soluzioni compatibile con i Trattati europei”.

Mentre fonti bene informate di Bruxelles, ancora lunedì mattina, ripetevano che i coronabond sono poco più che un’etichetta e che si lavora ad un MES adeguato alla specifica situazione da affrontare, è salita alla ribalta la Banca Europea degli Investimenti (BEI) nel ruolo di MES “buono”. In effetti, proprio il Direttore del MES Klaus Regling aveva dichiarato martedì scorso, al termine dell’Eurogruppo, che i coronabond ci sono già e sono le obbligazioni emesse dal MES (garantite dai 19 Paesi dell’Eurozona) e quelli emesse dalla BEI (garantite dai 27 Paesi della UE). Basta osservare le regole che questi istituti applicano per prestare denaro.

La BEI è la banca della UE. Forte della garanzia degli Stati UE, raccoglie denaro sui mercati internazionali emettendo obbligazioni col massimo rating “AAA” (quindi a tassi prossimi allo zero) e li presta a favore di piccole e medie imprese ed enti locali prevalentemente della UE. Al 31/12/2019 aveva erogato prestiti per €560 miliardi, di cui 70 (12%) destinati all’Italia. Finanzia progetti prevalentemente in quattro aree: innovazione, piccole imprese, clima e infrastrutture e lo fa come una qualsiasi banca, eseguendo una rigorosa ed adeguata verifica della sostenibilità dei progetti ed applicando sane regole di gestione del rischio. Nel 2019 ha finanziato progetti per circa 72 miliardi, di cui l’Italia, con 11 miliardi (tra prestiti e garanzie) è stato il maggior beneficiario, attivando investimenti per 34 miliardi. Ed è proprio questo il punto di forza della BEI: per ogni euro di capitale può eseguire prestiti fino a 3,5 euro (c’è vincolo statutario di prestiti non superiori al 250% del patrimonio). Inoltre, poiché la BEI finanzia solo una frazione (mai più del 50%) dell’investimento e le si affiancano banche, anche pubbliche come la Cassa Depositi e Prestiti, l’ammontare degli investimenti, cosiddetti “mobilitati”, è circa 3/4 volte il prestito eseguito dalla BEI. In questo modo, i 72 miliardi prestati nel 2019 hanno concorso a finanziare investimenti per circa 280 miliardi. Il suo braccio operativo FEIS (quello del piano Juncker, per intenderci) dal 2015 ha eseguito prestiti per 84 miliardi che hanno concorso a sostenere investimenti per 458 miliardi, facendo leva su un fondo di garanzia a carico del bilancio UE. Cifre apparentemente noiose, ma necessarie per capire la scala dimensionale.

Già il 16 marzo il Presidente della BEI è intervenuto, raschiando il fondo del bilancio, ed ha messo a disposizione prestiti che avrebbero attivato 40 miliardi di investimenti, poca cosa ma quello c’era in cassa. Ora, per erogare ulteriori prestiti ci vuole altro capitale o garanzie. Ma qui l’Italia deve mettere mano al portafoglio, perché è azionista della BEI al 19% circa, alla pari con Francia e Germania. Un po’ come il MES: per avere aiuti dobbiamo contribuire al fondo. L’ipotesi alla quale si sta lavorando è l’attivazione di un fondo di garanzia per 25 miliardi che potrebbe generare prestiti della BEI per 75 miliardi (la leva di 3,5 volte) che, a loro volta, concorrerebbero a finanziare investimenti per 200 miliardi. Un nuovo piano Juncker che potrebbe significare per l’Italia prestiti intorno a 11/12 miliardi, lo 0,7% del PIL. Numeri la cui esiguità rispetto al PIL dell’Eurozona (circa 13.000 miliardi) si commenta da sola. Recentemente l’ex governatore della Banca Centrale Svizzera, Phillip Hildebrand, ricordava che, per contrastare la caduta del reddito, si attende uno stimolo da parte dei bilanci pubblici per almeno il 20% del PIL e proprio domenica il Financial Times ha pubblicato un grafico in cui l’Italia è tristemente fanalino di coda nell’elenco che mostra l’impegno di bilancio dei Paesi in risposta alla crisi da COVID 19.

La BEI è uno strumento che fa bene il suo lavoro ma ha tempi, modalità e dimensioni del tutto inadeguate rispetto alla magnitudo della crisi che è già tra noi. È una soluzione da tempi di pace, mentre in tempi di guerra c’è una solo banca che può fare la parte di “Mister Wolf”: la BCE. Senza limiti e senza aver paura di superare la linea rossa del finanziamento monetario del deficit degli Stati. E stupisce davvero la prudenza del ministro dell’economia Roberto Gualtieri che parla di “un Fondo senza condizionalità stringenti e che sia in grado di dare benzina quando quella che ci sta fornendo oggi la Bce dovesse cominciare a essere insufficiente. Se insomma, adesso è Francoforte che ci dà una mano con la potenza di fuoco messa in campo nelle scorse settimane, tra un paio di mesi Gualtieri vorrebbe costruire una strategia fatta di più tasselli tra cui un Mes rivisto e uno strumento finanziario costruito in ambito Bei”, come riferito oggi dal Sole 24Ore. Per capire la differenza nella capacità finanziaria, basti notare che la Banca Centrale nelle ultime due settimane di marzo ha acquistato circa 40 miliardi di titoli, di cui ben 33 di titoli pubblici (la quota italiana la conosceremo il 6 aprile). Inoltre in soli due giorni di acquisti del nuovo programma PEPP (750 miliardi complessivi fino a dicembre) ha acquistato ben 15,6 miliardi. Chiaro perché, oltre alla BCE, il resto è tappezzeria?

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