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Draghi

Perché solo con Draghi a Bruxelles si riformerà bene il Patto di stabilità

Il nuovo Patto di stabilità? Meno velleitario di quello precedente, ma ben lontano dal rappresentare una risposta adeguata alle sfide del presente. Ma con Draghi alla testa della Commissione Ue... Il punto di Gianfranco Polillo

 

In tempo di pace, quando Vladimir Putin non aveva ancora deciso l’avventura revanscista, il “Patto di stabilità” era stato, per l’Unione europea, soprattutto una sovrastruttura retorica. Complicate regole numeriche, codificate in leggi di difficile applicazione. Che ben pochi avevano rispettato. Si pensi solo a quella relativa al debito: per la quota del rapporto debito/PIL in eccesso rispetto al livello del 60%, il tasso di riduzione doveva essere pari ad 1/20 all’anno nella media dei tre precedenti esercizi (versione backward-looking). La regola era considerata soddisfatta altresì se la riduzione del differenziale di debito rispetto al 60 per cento si fosse verificata, in base alle previsioni della Commissione europea, nel periodo di tre anni successivi all’ultimo anno per il quale si avevano dati disponibili (versione forward-looking). Un rompicapo. Oppure al calcolo, ancor più controverso, del deficit strutturale corretto per l’andamento del ciclo.

Non sarà stato quindi un caso se le procedure relative al cosiddetto “braccio correttivo”, tese ad imporre ai singoli Stati interventi di natura fiscale per contenere deficit e debito, seppure avviate, abbiano poi comportato ben poche sanzioni. Unica vistosa eccezione la Grecia. Ma in quel caso il Paese era già entrato nella spirale dei malati terminali. I conti pubblici erano stati “taroccati”. L’economia reale era a pezzi, con un deficit delle partite correnti che aveva raggiunto il 14,6 per cento del Pil (2008). Il rapporto debito/Pil aveva toccato la punta del 175,2 per cento (2011). Il debito nei confronti dell’estero, agli inizi del 2011, il 107,5 per cento del Pil. Se, nel 2008, non vi fosse stato il fallimento della Lehman Brothers, che aveva cambiato radicalmente il sentiment dei mercati finanziari, probabilmente l’agonia sarebbe ancora continuata.

Le complesse regole comunitarie non erano state, infatti, in grado di segnalare per tempo l’avvitarsi della crisi. Mostrando un deficit che trovava la sua spiegazione nella circostanza che mentre nelle Istituzioni si discuteva di codici e codicilli, il modello effettivo delle relazioni economiche e finanziarie aveva una diversa strutturazione. Il cielo della teoria e la concretezza dell’agire.

Con la nascita dell’euro, il baricentro economico dell’Unione era divenuto la Germania, fortemente potenziata dopo la sua riunificazione. Suo punto di forza la manifattura, in grado di imporsi, grazie alle migliori tecniche produttive, sul piano internazionale. A ruota una serie di Paesi – l’Olanda in modo particolare – dalla cui partnership dipendeva gran parte del flusso commerciale verso l’estero. In particolare attraverso il porto di Rotterdam.

La principale specializzazione tedesca era la produzione di beni capitali, indispensabili per favorire la crescente industrializzazione di aree che, in passato, apparteneva al grande mondo del sottosviluppo. Le cosiddette “economie emergenti” di cui la Cina ne era il capofila. Quelle produzioni avevano, ovviamente, bisogno di energia a prezzi contenuti, che la Germania aveva ottenuto grazie al suo rapporto preferenziale con la Russia di Putin, ancora tentato di rimanere all’interno dell’orbita europea. Si era così stabilita una liaison straordinaria. Grazie al gas russo del Nord Stream e delle altre pipeline la potenza tecnologica tedesca poteva produrre a prezzi competitivi, per poi vendere soprattutto nelle aree a più intenso sviluppo. Che, in quegli anni, erano rappresentate dalle economie emergenti.

Dal 2001 in poi le partite correnti della sua bilancia dei pagamenti avevano cominciato a macinare attivi su attivi, fino a raggiungere nel 2010 il 5,1 per cento del Pil. Nello stesso intervallo l’Olanda arrivava al 6,9 per cento del Pil. Risorse che non erano destinate ad essere sterilizzate, ma rappresentavano la base di un’intensa attività finanziaria, soprattutto a favore degli altri partner europei, le cui economie non reggevano il ritmo della concorrenza internazionale. E di conseguenza presentavano crescenti squilibri delle loro bilance dei pagamenti. Nel 2010, se si escludono i Paesi che dovranno far ricorso al Fondo salva Stati (Cipro, Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia), Germania, Olanda, Belgio (ed in misura minima Finlandia e Malta) erano in grado di finanziare i restanti 9 Paesi e, al tempo presentare un saldo netto nei confronti del Resto del mondo di oltre 333 miliardi di euro.

Questo schema, basato sulla stretta integrazione tra elementi dell’economia reale e strutture finanziarie, è stato in grado di operare fin quando la crisi dei “subprime”, all’indomani del fallimento della Lehman Brothers, non ha dimostrato che si era andati oltre le Colonne d’Ercole. In un territorio sconosciuto. L’accresciuta consapevolezza sui mutati rischi di natura finanziaria aveva comportato, allora, un forte de- finanziamento delle aree più fragili: la Grecia e gli altri Paesi europei poi assistiti dal Fondo salva Stati, ma la stessa Russia di Putin che, seppure in ritardo, subirà una forte contrazione del reddito. Crisi che sarà all’origine di quel cambiamento nelle scelte di politica estera oggi tragicamente evidenti nelle mire espansionistiche degli uomini del Cremlino. E così dal tempo di pace, di cui si diceva all’inizio, l’Europa, ma l’intero Occidente, è scivolata, quasi senza accorgersene, lungo il sentiero di una guerra di cui non è facile scorgere gli sbocchi futuri.

Il limite maggiore delle nuove regole del Patto, al di là dei rilievi tecnici, è quello di non tener conto di questa diversa realtà e dei cambiamenti di natura geopolitica che sono, nel frattempo, intervenuti. Gli scontri ai confini dell’Europa: ad est (Ucraina) come a Sud (Israele) ne sono la più evidente manifestazione. Al punto dall’aver costretto gli stessi Stati Uniti (ma sarà così anche dopo le prossime presidenziali?) a riconsiderare frettolosamente le proprie strategie. E tentare, in extremis, di riposizionarsi in quel Mediterraneo da tempo abbandonato e dove le nuove potenze regionali (Iran, Arabia saudita, Turchia, la stessa Israele) giocano la loro partita. Il tutto mentre l’Europa, che dovrebbe avere un ruolo centrale nel garantire un equilibrio strategico, si trastulla con i nuovi numeretti del Patto di stabilità. Un accordo, quest’ultimo, meno velleitario di quello precedente, ma comunque ben lontano dal rappresentare una risposta adeguata alle sfide del presente.

Nonostante tutto, siamo, tuttavia, speranzosi. La candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea è stata, in qualche modo, ufficializzata. È il “whatever it takes” di cui l’Unione ha bisogno. Si arrivasse a questa soluzione, le nuove Regole del patto sarebbero solo un tardivo colpo di coda, rivolto soprattutto contro la stessa Commissione europea, le cui proposte originarie erano di gran lunga più avanzate ed in grado di rispondere meglio alla complessità di questa nuova fase. Questo significa, tuttavia, che esiste una base consolidata da cui si può ripartire. Tanto più che i tre anni strappati, prima che le nuove regole entrino nella pienezza della loro vigenza, possono rappresentare un’uscita di sicurezza che potrà rappresentare la necessaria via di fuga.

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