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Perché serve uno choc fiscale per invertire la tendenza alla bassa crescita. Il commento di Polillo

Ridurre il debito pubblico resta una priorità. Ma l’algebra, ancor prima dell’economia, dovrebbe insegnare che una frazione, con un denominatore pari a zero, ha come risultato un valore che tende all’infinito. Il meccanismo perverso della bassa crescita che fa lievitare il rapporto debito-Pil.

 

Piantiamola con la retorica degli investimenti. Governo ed opposizione sono concordi nel reclamare a gran voce una loro ripresa. Tanto non costa nulla, per il semplice fatto che non si faranno. E, quindi, parlarne serve solo a nascondere quanto di più oscuro c’è nella realtà italiana e neutralizzare le vere proposte che sono in grado di rimetterne in moto l’economia. Quella riforma fiscale, finora agitata dalla Lega, sollecitata dalla stessa Banca d’Italia, ma subito sommersa da un coro scomposto di controproposte, che hanno l’unico scopo di rinviarne sine die la sua effettiva definizione. Si pensi solo alle ultime opzioni avanzate da Luigi Di Maio, che propone, in alternativa alla flat tax, l’abolizione del canone Rai e del bollo auto. Quasi una provocazione.

Il ritardo medio (dalla decisione pubblica d’investimento alla posa della prima pietra) secondo le valutazioni delle associazioni imprenditoriali, supera i 5 anni. Il che spiega perché gli oltre 50 miliardi stanziati, da tempo, siano rimasti lettera morta. E tutto lo sforzo programmatorio realizzato sia stato quello di non mandare in perenzione i relativi fondi. Ossia mantenerli nelle pieghe di bilancio, evitando la loro definitiva cancellazione. Non siamo in grado di giurare sull’esattezza delle cifre fornite. Il dato, comunque, non solo è plausibile, ma forse pecca per difetto.

La realizzazione dell’autostrada Roma-Latina fu decisa 18 anni fa. Una via crucis dal punto di vista amministrativo. Il progetto era stato elaborato dall’Anas. Quindi trasferito alla Regione Lazio, sulla spinta del cosiddetto “federalismo demaniale”. Fu pertanto costituita una specifica società – Autostrade del Lazio Spa – poi trasformatesi in una scatola vuota. Visto che nel frattempo, come in un perverso gioco dell’oca, il progetto era ritornato a casa: nuovamente in mano Anas. Nel frattempo gare assegnate e contestate. Ricorsi al Tar e Consiglio di stato e finanche in Cassazione. Montagne di carte bollate. E solo qualche rappezzo di manutenzione ordinaria nell’unico pericolosissimo collegamento – la Via Pontina – che unisce uno dei più importanti polmoni produttivi della Regione (agro alimentare, farmaceutica e turismo) alla Capitale, nonché via obbligata dell’inevitabile pendolarismo di massa.

Responsabilità dei passati regimi? Indubbiamente. Ma oggi la stessa Virginia Raggi, la sindaca di Roma, dice che quell’opera, lisciando il pelo ai vari movimenti “No qualcosa”, “non s’ha da fare”. E quei 18 anni di ritardo, nonostante gli investimenti pubblici decisi da tempo (trattenuti a bilancio per il rotto della cuffia), rischiano di trasformarsi in un mezzo secolo di sofferenza, per diverse generazioni di poveri utenti, costretti comunque a percorre quel piccolo inferno per 365 giorni all’anno.

Sboccare situazioni del genere è ovviamente necessario e indispensabile. Ma quel groviglio di contraddizioni può essere sciolto in un tempo utile per incidere sugli andamenti di una cattiva congiuntura? Chi lo sostiene è completamente fuori dalla realtà italiana. Non ne comprende le intrinseche vischiosità legislative ed amministrative, che naturalmente vanno sciolte. Ma avendo piena consapevolezza di quanto gravoso sia il compito necessario. Specie se il ministro responsabile – Danilo Toninelli – è, tutt’altro, che un facitore. Nel caso della Pontina, ancora recentemente, i suoi tecnici hanno fatto da sponda agli oppositori del progetto.

L’impegno a favore di una riforma fiscale va valutato alla luce di queste considerazioni. Mettere da subito maggiori risorse finanziarie nelle tasche degli italiani, significa far crescere la domanda interna e, al tempo stesso, garantire maggiori margini alle imprese. Il prerequisito per far crescere gli investimenti privati, che poi – questi, sì – sono la leva essenziale dello sviluppo. Si investe se il ritorno sul capitale impegnato è positivo. E se la crescita del mercato, legato a maggiori consumi interni, è in grado di sostenere la maggiore produzione. Un circolo virtuoso. Che può far aumentare il Pil e recuperare quei livelli di benessere che, solo in Italia ed in Grecia, sono ancor più bassi di 10 anni fa.

Sembra l’uovo di Colombo e forse lo è, se non fosse contrastato dal residuo di vecchie mentalità – “le tasse bellissime” di Tommaso Padoa-Schioppa – che gran parte della cultura di sinistra non ha ancora completamente metabolizzato. Ancora ossessionata dalla voglia di far ”piangere i ricchi”. Quella media borghesia, sempre più impoverita, ma che in quell’immaginario, resta comunque un nemico irriducibile. Ed ecco allora il polverone. Il ricorso a sofismi di carattere contabile. Dimenticando non solo il fatto che in Italia esiste un eccesso di risparmio inutilizzato (circa 50 miliardi l’anno), ma che il confronto con la Commissione europea può, anzi deve, avvenire su terreni diversi. Nessun lassismo, per carità.

Ridurre il debito pubblico resta una priorità. Ma l’algebra, ancor prima dell’economia, dovrebbe insegnare che una frazione, con un denominatore pari a zero, ha come risultato un valore che tende all’infinito. Il meccanismo perverso della bassa crescita che fa crescere continuamente il rapporto debito-Pil.

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