Casi precisi e giudizi netti quelli espressi oggi dal presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli in audizione alla Camera sul Programma di lavoro della Commissione europea per il 2020 e alla Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia alla Unione europea nell’anno 2020. Ecco tutti i dettagli e alla fine il testo integrale dell’audizione.
Per la tassazione dei giganti del web in Europa “occorre, in particolare, recuperare lo stretto legame che deve esistere tra luogo di produzione del valore e degli utili e luogo in cui l’imposta viene effettivamente versata, anche perché l’attività delle società digitali incide negativamente su quella degli operatori ‘tradizionali’ radicati a livello territoriale”. E’ l’indicazione che arriva Rustichelli in audizione alla Camera. “Negli ultimi 5 anni la Commissione europea ha inflitto a Google oltre 8 miliardi di euro di sanzioni, somma che, se appare prima facie elevata per i tradizionali standard europei, è assai poco deterrente – spiega il presidente dell’Antitrust – ove comparata ai circa mille miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa della società stessa”.
“Il fenomeno della concorrenza fiscale sleale interessa in larga misura anche i grandi operatori digitali. Come è ben noto, si tratta delle società con le maggiori valorizzazioni di borsa a livello globale: i cinque Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) oggi capitalizzano oltre 6 mila miliardi di dollari. Un valore che corrisponde al prodotto interno lordo generato dall’Italia in oltre tre anni” osserva.
“Non stupisce, dunque, che tali soggetti abbiano oggi ulteriormente rafforzato il già amplissimo potere di mercato detenuto, rendendolo, se possibile, ancora meno contendibile, con impatti diretti e indiretti sull’organizzazione di intere filiere produttive, anche di quelle più tradizionali” afferma Rustichelli. “In tale quadro, il versante fiscale resta certamente uno dei terreni più problematici poiché anche da esso trae alimento l’enorme potere economico dei giganti digitali. La tassazione delle attività di tali operatori, infatti, è spesso oggetto di tax ruling ad-hoc e costituisce, anche al di là di tali fenomeni patologici, una delle principali tematiche che devono certamente essere affrontate dall’Europa”, ha aggiunto il Garante del mercato.
“La crisi dell’industria italiana del bianco, uno per tutti è il caso Whirlpool“, rappresenta un “caso paradigmatico” delle conseguenze dei differenziali provocati a livelli europeo dalle pratiche di dumping sociale e contributivo, ha anche denunciato il presidente Antitrust nell’audizione nella commissione Politiche Ue della Camera sulla relazione per la partecipazione dell’Italia all’Unione europea nel 2020. “Ad esempio – ha spiegato – nel 2019, il costo medio di un’ora di lavoro in Polonia e’ stato di 10,7 euro, mentre in Italia di 28,8 euro. Va considerato, inoltre, che mentre in Italia il 28,7% del costo del lavoro e’ dovuto al versamento di contributi previdenziali a carico del datore di lavoro e ad altri costi (ad esempio, per la formazione), la percentuale di tali oneri ulteriori scende al 18,4% in Polonia”. E, ha sottolineato, “al tempo stesso, a fronte di livelli di investimenti in sicurezza sul lavoro e di tutele ambientali eterogenei, la Polonia riceve ogni anno oltre 12 miliardi di euro netti dall’Unione europea, mentre l’Italia e’ contributore netto di 5 miliardi”.
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Il testo dell’audizione in commissione Politiche dell’Unione europea della Camera del Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Roberto Rustichelli, in merito al Programma di lavoro della Commissione europea per il 2020 e alla Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia alla Unione europea nell’anno 2020.
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Onorevole Presidente, Onorevoli Deputate e Deputati,
Vi ringrazio per aver offerto all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato l’opportunità di esprimere la propria opinione in merito al Programma di Lavoro della Commissione per il 2020 e sulla Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Unione europea.
L’Autorità desidera, innanzitutto, esprimere il proprio apprezzamento per l’iniziativa, perché permette di porre l’accento su talune problematiche che toccano l’economia europea in un momento difficile, come quello che stiamo vivendo a causa dell’emergenza sanitaria tuttora in corso.
È chiaro che lo scenario economico complessivo nell’ambito del quale è stata redatta la relazione della Commissione europea, pubblicata il 29 gennaio 2020, è certamente cambiato a seguito dell’emergenza sanitaria Covid-19.
In particolare, il Fondo monetario internazionale ha recentemente stimato una riduzione del Pil a livello globale per il 2020 del – 4,9 percento, con una ripresa nel 2021 (+5,4 percento).
Per quanto attiene al nostro Paese, le stime FMI indicano un calo del prodotto interno lordo al –12,8 per cento nel 2020, con una parziale ripresa nel 2021 (+ 6,3 percento). Si tratta del calo più severo fra quelli stimati dal Fondo per gli Stati membri dell’UE nel corrente anno, assieme a quello della Spagna.
In questa prospettiva spero che il contributo dell’Autorità possa risultare utile per rendere più efficace e propositiva la partecipazione del nostro Paese all’Unione europea, in una fase particolarmente complessa, dalla quale evidentemente sarà possibile uscire solo grazie a un elevato grado di coesione e di convergenza delle politiche economiche di tutti gli Stati membri.
Dalla data della sua istituzione, il mercato unico, attraverso una sempre maggiore apertura alla concorrenza e alla riduzione delle barriere commerciali, rappresenta la piattaforma di lancio per stimolare la realizzazione della crescita sostenibile e la creazione di nuovi posti di lavoro.
Lo sviluppo di tale piattaforma necessita, però, di un esercizio costante, atteso che, con il diffondersi dell’epidemia, molti paesi hanno adottato misure di contenimento del libero mercato progressivamente più restrittive.
Al riguardo non può che ribadirsi l’importanza di un coordinamento internazionale nelle politiche di risposta all’attuale crisi, a cominciare da quelle dell’Unione europea che deve aver chiaro che un mercato altamente concorrenziale è, anche oggi, lo strumento fondamentale per realizzare una rapida e solida ripresa.
Ho già osservato in passato, infatti, che la concorrenza, favorendo la produttività e la crescita economica, stimola l’innovazione, incentiva l’efficienza e la riduzione dei costi, conducendo, al contempo, a prezzi più bassi.
Tale riduzione dei prezzi non giova solo al consumatore, ma, abbassando il costo di input fondamentali, rafforza anche la competitività delle imprese che utilizzano quegli input nel loro ciclo produttivo.
Ma tutto ciò non basta, considerato che l’attuale quadro normativo dell’Unione europea determina una disparità di condizioni concorrenziali nel mercato tra Stati membri e operatori, in quanto, da un lato, favorisce il dumping fiscale e contributivo tra paesi e, dall’altro, è inadeguato a garantire una tassazione efficace ed equa dell’economia digitale.
Del resto, i problemi della concorrenza fiscale sleale sono sempre più al centro del dibattito economico e politico nell’Unione europea.
L’esperienza, unica nella storia del nostro continente, di un’unione monetaria accompagnata da una crescente integrazione dei mercati reali e finanziari è sempre più incrinata dall’assenza di stringenti regole comuni fiscali e contributive.
Tale vuoto normativo rende possibile ad alcuni Stati membri di porre in essere pratiche di dumping fiscale e contributivo, che possono minare le fondamenta della stessa costruzione europea.
Paesi come l’Irlanda, l’Olanda e il Lussemburgo sono veri e propri paradisi fiscali nell’area Euro, che attuano pratiche fiscali aggressive che danneggiano le economie degli altri Stati membri e che, anche grazie a queste pratiche, registrano elevatissimi tassi di crescita.
Ne è prova la circostanza che nell’ultimo quinquennio il PIL italiano è cresciuto solo del 5%, mentre il Pil dell’Irlanda è cresciuto del 60%, quello del Lussemburgo del 17% e quello dell’Olanda del 12%. Altrettanto significativi risultano i dati relativi al reddito pro-capite nei diversi paesi. A fronte di un reddito pro-capite nel 2019 in Italia pari a euro 28.860, si registra in Lussemburgo un reddito pro capite di 83.640, in Irlanda di 60.350 e in Olanda di euro 41.870.
I trattati dell’Unione non fanno direttamente riferimento alla concorrenza fiscale. Attraverso la risoluzione del dicembre 1997 su un Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese, gli Stati membri si sono politicamente impegnati ad astenersi da pratiche fiscali dannose, mentre le norme Ue in materia di aiuti di Stato impediscono di concedere un trattamento fiscale favorevole a determinate imprese.
Tuttavia, né il Codice di Condotta né le norme sugli aiuti di Stato hanno limitato in misura significativa la capacità dei paesi di utilizzare il proprio sistema fiscale come leva competitiva sleale, con effetti negativi sull’economia e sulla coesione dell’Unione europea nel suo complesso.
Come ho già avuto modo di rilevare in passato, la concorrenza fiscale sleale genera evidenti vantaggi per taluni Paesi: il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia.
Anche l’Irlanda (2,7%) fa meglio dell’Italia, nonostante un’aliquota particolarmente bassa, che è, però, in grado di attrarre imprese altamente profittevoli con un margine operativo lordo mediamente pari al 69,4% del valore aggiunto prodotto.
Gli investimenti internazionali si adattano alla geografia della concorrenza fiscale: l’Italia attira investimenti esteri diretti pari al 19% del PIL; il Lussemburgo pari a oltre il 5.760%, l’Olanda al 535% e l’Irlanda al 311%.
Valori così elevati non trovano spiegazione nei fondamentali economici di tali Paesi, ma sono in larga parte riconducibili alla presenza di società veicolo. In effetti, le imprese a controllo estero rappresentano oltre un’impresa su quattro del Lussemburgo, mentre generano il 73,6% del margine operativo lordo complessivo prodotto dalle imprese in Irlanda, a fronte del 12,7% in Italia.
Uno studio commissionato dal Ministero delle Finanze olandese mostra che i soli flussi finanziari (dividendi, interessi e royalties) che attraversano le società di comodo olandesi ammontano a 199 miliardi di euro (il 27% del PIL del Paese).
Ma se alcuni Paesi ci guadagnano, è l’Unione europea a perderci, visto che le multinazionali reagiscono alla concorrenza fiscale, localizzando le loro sedi proprio nei Paesi europei con una tassazione più favorevole.
Ciò drena risorse dagli Stati in cui il valore è effettivamente prodotto.
Alcune ricerche stimano che, a causa della concorrenza fiscale sleale a livello europeo, il fisco italiano perde la possibilità di tassare oltre 23 miliardi di dollari di profitti: 11 miliardi di profitti vengono spostati in Lussemburgo, oltre 6 miliardi in Irlanda, 3,5 miliardi in Olanda e oltre 2 miliardi in Belgio.
Ciò comporta un danno per l’Italia che può essere stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno.
Infine, non si può tacere che Irlanda, Olanda e Lussemburgo raccolgono circa 270 miliardi di dollari di profitti “sviati”, e che tali paradisi fiscali non si fanno neppure carico, non avendo sul proprio territorio gli opifici industriali delle società che hanno ivi spostato la propria sede fiscale, dei costi degli ammortizzatori sociali. Si tratta di un fenomeno che assume un ulteriore risvolto problematico nel caso dei Paesi che affiancano a tali pratiche fiscali sleali la pretesa di uno stretto rigore di bilancio da Paesi dai quali drenano risorse.
La concorrenza fiscale sleale riduce poi anche la capacità dell’Unione europea nel suo complesso di raccogliere risorse, in tal modo impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese.
Infatti, come evidenziato da uno studio della stessa Commissione europea, le pratiche di profit-shifting hanno generato negli ultimi 20 anni minori entrate per l’Unione europea nell’ordine di 35-70 miliardi di euro all’anno.
La concorrenza fiscale sleale ha altresì un impatto negativo sulla sostenibilità delle finanze pubbliche e sulla composizione del prelievo fiscale.
La tassazione, infatti, tende a spostarsi su basi imponibili non trasferibili quali gli immobili, i lavoratori dipendenti, i veicoli e i carburanti.
Si tratta, peraltro, di dinamiche che possono minare anche la parità di condizioni sul mercato, avvantaggiando in modo sproporzionato alcuni tipi di imprese e i loro dipendenti.
Altrettanto dannose sono le pratiche di dumping sociale e contributivo che danneggiano i lavoratori e incentivano le delocalizzazioni delle imprese in Paesi che offrono minori tutele ai lavoratori e ridotti standard di tutela ambientale.
Le differenze tra i Paesi europei sono significative. Ad esempio, nel 2019, il costo medio di un’ora di lavoro in Polonia è stato di 10,7 euro, mentre in Italia di 28,8 euro.
Va considerato, inoltre, che mentre in Italia il 28,7% del costo del lavoro è dovuto al versamento di contributi previdenziali a carico del datore di lavoro e ad altri costi (ad esempio, per la formazione), la percentuale di tali oneri ulteriori scende al 18,4% in Polonia.
Esempio paradigmatico delle conseguenze di tali differenziali è la crisi dell’industria italiana del bianco – uno per tutti è il caso Whirlpool.
Al tempo stesso, a fronte di livelli di investimenti in sicurezza sul lavoro e di tutele ambientali eterogenei, la Polonia riceve ogni anno oltre 12 miliardi di euro netti dall’Unione europea, mentre l’Italia è contributore netto di 5 miliardi.
Anche in questo caso siamo di fronte a una pratica che mina alle radici la tenuta del mercato unico, falsando la concorrenza tra imprese, soprattutto le più piccole e che, in ultima analisi, determina una rovinosa concorrenza al ribasso nelle politiche sociali ed ambientali.
Tuttavia, a queste preoccupazioni non ha corrisposto finora una capacità altrettanto forte di risposta da parte delle autorità dell’Unione.
Inoltre, anche lo strumento degli aiuti di Stato, finora utilizzato in quanto unico disponibile, è inadeguato a contrastare le pratiche fiscali aggressive dei paradisi fiscali europei. Basti rilevare che, laddove un Paese abbia concesso vantaggi fiscali indebiti a una società, è obbligato a recuperarli dagli stessi operatori economici. È chiaro che si tratta di un meccanismo per nulla deterrente che, anzi, incentiva gli Stati a praticare forme di concorrenza fiscale sleale.
Ad esempio, ad esito dell’indagine sugli aiuti di Stato avviata nel 2014, nel 2016 la Commissione europea ha concluso che l’Irlanda ha illegalmente concesso ad Apple vantaggi fiscali indebiti per un totale di 13 miliardi di euro relativi al periodo 2003-2014.
Sulla base dei dati contenuti nell’indagine della Commissione, è possibile stimare che l’ammontare di imposte non versate da Apple nel periodo 2003-2014 rappresenta circa il 22% del totale delle tasse sugli utili pagate dalle imprese in Irlanda nello stesso periodo (58,6 miliardi di euro).
I 13 miliardi di euro (14,3 miliardi se si aggiungono gli interessi) che Apple ha versato all’Irlanda ad esito della decisione della Commissione del 2016 rappresentano circa il 5% del PIL di tale Paese. Facendo un paragone con l’Italia in proporzione ai rispettivi PIL, è come se il nostro Paese avesse ricevuto da Apple circa 90 miliardi di euro.
La disciplina degli aiuti di Stato mi permette poi di sottoporvi ulteriori considerazioni, sotto il profilo concorrenziale, legate alla diffusione della pandemia.
L’eccezionalità dell’attuale momento storico-economico ha certamente avuto ad oggi importanti ricadute sulla disciplina europea sul controllo degli aiuti di Stato, il cui rigore è stato allentato dalla Commissione attraverso il Quadro temporaneo, tant’è che, negli ultimi tre mesi, la medesima ha concesso un numero straordinario di autorizzazione di aiuti (peraltro, ben il 52% di autorizzazioni sono state concesse alla Germania).
Ebbene, l’applicazione delle nuove regole temporanee ha comportato rapidamente una distribuzione di sussidi alle imprese europee inevitabilmente asimmetrica, conseguente alla diversa disponibilità economico-finanziaria dei diversi Paesi membri.
Tali asimmetrie rischiano di conseguire, nel medio-lungo periodo, delle conseguenze pregiudizievoli per il buon funzionamento del mercato interno e, in particolare, per le imprese italiane destinatarie fino ad oggi di minori sussidi rispetto alle imprese di altri paesi, peraltro colpiti meno fortemente dalla crisi epidemiologica.
Il fenomeno della concorrenza fiscale sleale interessa in larga misura anche i grandi operatori digitali.
Come è ben noto, si tratta delle società con le maggiori valorizzazioni di borsa a livello globale: i cinque GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) oggi capitalizzano oltre 6 mila miliardi di dollari.
Un valore che corrisponde al prodotto interno lordo generato dall’Italia in oltre tre anni.
Non stupisce, dunque, che tali soggetti abbiano oggi ulteriormente rafforzato il già amplissimo potere di mercato detenuto, rendendolo, se possibile, ancora meno contendibile, con impatti diretti e indiretti sull’organizzazione di intere filiere produttive, anche di quelle più tradizionali.
In tale quadro, il versante fiscale resta certamente uno dei terreni più problematici poiché anche da esso trae alimento l’enorme potere economico dei giganti digitali. La tassazione delle attività di tali operatori, infatti, è spesso oggetto di tax ruling ad-hoc e costituisce, anche al di là di tali fenomeni “patologici”, una delle principali tematiche che devono certamente essere affrontate dall’Europa.
Occorre, in particolare, recuperare lo stretto legame che deve esistere tra luogo di produzione del valore e degli utili e luogo in cui l’imposta viene effettivamente versata, anche perché l’attività delle società digitali incide negativamente su quella degli operatori “tradizionali” radicati a livello territoriale (si pensi, ad esempio, all’impatto concorrenziale che la tassazione può avere sulle condizioni economiche offerte dai diversi operatori attivi nel commercio elettronico).
L’Europa – attraverso l’attività della Commissione europea e delle autorità di concorrenza nazionali – è all’avanguardia nell’enforcement antitrust nel settore digitale. Negli ultimi 5 anni la Commissione europea ha inflitto a Google oltre 8 miliardi di euro di sanzioni, somma che, se appare prima facie elevata per i tradizionali standard europei, è assai poco deterrente ove comparata ai circa mille miliardi di dollari di capitalizzazione in borsa della società stessa.
Anche l’Autorità italiana è impegnata nel contrasto ai possibili abusi di posizione dominante dei GAFAM. Evidenzio, al riguardo, i due procedimenti nei confronti di Amazon e di Google attualmente in corso.
Fermo restando il rigoroso enforcement degli artt. 101 e 102 TFUE, la Commissione europea sta pensando di introdurre un nuovo strumento (un New Competition Tool) che dovrebbe consentire di affrontare ex ante i problemi di natura strutturale, anche quando non originati da condotte abusive e/o collusive delle imprese.
Si tratta di uno strumento, tuttavia, che dovrebbe essere attentamente ponderato per evitare forme di intervento altamente regolatorio.
Peraltro, già oggi diverse autorità di concorrenza, come quella italiana, dispongono di una varietà di strumenti idonei a controllare le condizioni economiche e contrattuali imposte da tali piattaforme ai contraenti deboli che devono necessariamente utilizzare i servizi di intermediazione dalle stesse offerti. Mi riferisco, in particolare, alle norme in materia di abuso di dipendenza economica, che possono trovare un’estesa applicazione in tutti i settori e, in particolare, nel settore digitale.
Con riferimento al contributo che la concorrenza e la tutela del consumatore offrono al fine di dare una adeguata risposta ai problemi insorti a seguito della crisi, rilevo che il 23 marzo 2020 la rete europea delle autorità di concorrenza (ECN – European Competition Network), di cui fanno parte la Commissione europea e tutte le autorità di concorrenza, ha adottato una dichiarazione congiunta sull’applicazione delle regole europee di concorrenza durante la crisi legata alla pandemia Covid-19.
La dichiarazione dell’ECN muove dalla consapevolezza che la pandemia sta producendo gravi conseguenze in Europa sotto il profilo sia economico che sociale e poggia su due premesse di fondo, ovverosia che gli strumenti del diritto antitrust sono dotati della flessibilità necessaria per tener conto degli sviluppi economici e di mercato e che l’obiettivo delle regole di concorrenza di assicurare un level playing field tra le imprese resta rilevante anche in situazioni di crisi.
In particolare, l’ECN riconosce che nel contesto della crisi legata al Covid-19 può risultare necessaria una maggiore cooperazione tra le imprese, soprattutto al fine di garantire la fornitura e l’equa distribuzione a tutti i consumatori di prodotti o servizi scarsi.
L’Autorità, in piena sintonia con le indicazioni della Rete Europea della Concorrenza e in stretto contatto con la Commissione europea, ha fornito anch’essa linee guida e valutazioni tempestive per gli accordi di cooperazione temporanei strettamente necessari a fronteggiare l’emergenza sanitaria e economica durante la prima fase della pandemia.
Con riferimento alle imprese che approfittano della situazione epidemiologica in corso, l’Autorità ha ottenuto, con l’applicazione della disciplina a tutela del consumatore, risultati talmente importanti da essere riconosciuta Autorità leader a livello europeo.
Infatti, il Direttore Generale della DG – Giustizia e consumatori della Commissione europea, la finlandese Salla Saastamoinen, ha inviato una lettera all’Autorità con la quale ha manifestato apprezzamento per le indagini avviate e per i provvedimenti adottati per tutelare i consumatori contro le pratiche commerciali scorrette, basate sull’illegittimo sfruttamento dell’emergenza sanitaria.
La Commissione ha affermato altresì che l’azione dell’Autorità rappresenta il modello di riferimento per le attività intraprese da altre autorità nazionali per contrastare la diffusione di pratiche illegali relative a prodotti Covid-19, che stanno affliggendo i consumatori nell’intera Unione europea.
Il lavoro della nostra Autorità ha dato, infine, impulso decisivo alla preparazione ed al lancio dell’azione comune della rete delle autorità nazionali responsabili per la tutela del consumatore (il CPC Network) al fine di assicurarsi la cooperazione di numerose piattaforme on-line operanti a livello globale.
Di tutto questo, credo, noi italiani dobbiamo essere orgogliosi.
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In conclusione, è chiaro che di fronte a simili forme di concorrenza sleale, peraltro ancora più dannose nell’attuale grave contesto recessivo, l’Europa debba ritrovare un autentico spirito di solidarietà, anche attraverso politiche di sostegno ai singoli Paesi alla luce delle peculiari condizioni di sviluppo.
La condizione essenziale, però, è che questo non si traduca, come accade in alcuni Stati membri, in un ulteriore strumento di distorsione, anche del mercato del lavoro.
A questo proposito, l’Autorità che presiedo manterrà alta l’attenzione su questi pericolosi disallineamenti, in quanto la loro eliminazione costituisce la precondizione perché si sviluppi una sana concorrenza tra le imprese all’interno del mercato unico, e al contempo, siano garantiti i diritti dei consumatori.