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Quota 100

Perché non mi entusiasma la canzoncina dei sindacati “Pensione di garanzia per i giovani”

Le prime vere pensioni totalmente contributive saranno liquidate verso il 2035. È meritorio che i sindacati intendano ‘’mettersi avanti con il lavoro’’. Ma non esageriamo con le foglie di fico che nascondono le ‘’vergogne’’ compiute nell’interesse degli ‘’anziani/giovani’’. L'analisi di Giuliano Cazzola

 

Nel prossimo giro di valzer che i sindacati si apprestano a fare con il governo, gli ottoni della orchestra si esibiranno sullo spartito della ‘’pensione di garanzia per i giovani’’.

Solo la presunzione di essere depositari della verità permette ai sindacati di accrocchiare in poche parole un concetto complesso. Senza contare, per altro, gli aspetti più discutibili di questa definizione. I leader confederali non la stanno a fare lunga e soprattutto ripetono queste parole con un candore commovente, al punto di aver convinto della bontà del loro operare anche i più valenti giornalisti che si occupano di pensione.

Qual è il ragionamento?

Poiché i giovani sono intrappolati in una condizione di precarietà, discontinuità e saltuarietà del lavoro e di conseguenza non potranno maturare un trattamento pensionistico adeguato, è assolutamente necessario garantirglielo per legge, quando, ovviamente, non sarà più giovane e non si saprà che cosa avrà fatto nel frattempo, oltre, come Nuddles nel film “C’era una volta in America”, essere andato a letto presto.

Quando sento i leader sindacali enunciare, con tono ispirato, questo loro obiettivo mi torna in mente la profezia che nonna Virginia mi faceva da bambino: ‘’Giuliano tu lo vedrai il socialismo…’’. Per mia fortuna non è andata così (anche per il tipo di socialismo — ‘’e noi faremo come la Russia’’ — a cui mia nonna pensava). Però quella promessa era sicuramente più gratificante ed eroica di quella che il Trio Lescano del sindacalismo (“Voi l’avrete la pensione e il prima possibile”) fanno ai giovani di oggi. In verità, la questione è abbastanza semplice.

Nel nostro ordinamento è previsto un minimo legale di pensione (per coloro che sono andati o andranno in quiescenza col regime retributivo e misto: quest’ultimo è divenuto la regola generale dall’1 gennaio 2012) che viene aggiornato ogni anno in relazione al costo della vita.

In sostanza, il soggetto che ha maturato i requisiti per il pensionamento (se non è in questa condizione potrà percepire, in concomitanza con gli altri requisiti richiesti, soltanto l’assegno sociale) ma ha un trattamento a calcolo inferiore al livello minimo, riceve, se in linea con i requisiti richiesti, una integrazione — a carico della fiscalità generale — fino a raggiungere quel livello (a cui si aggiungono in determinate condizioni di reddito anche le c.d. maggiorazioni sociali).

La riforma Dini-Treu del 1995 non ha previsto questo meccanismo di solidarietà infragenerazionale per coloro che sono interamente nel sistema contributivo (ovvero gli assicurati per la prima volta dal 1° gennaio 1996).

La riforma Fornero del 2011 ha in parte rimediato a questa lacuna, introducendo quello che potremmo chiamare un ‘’livello minimo di adeguatezza’’ ovvero si potrà andare in pensione se quel minimo sarà raggiunto col proprio montante contributivo in ragione dell’età anagrafica. L’integrazione al minimo nel bilancio dell’Inps viene coperta dalla fiscalità generale secondo un meccanismo convenzionale ragguagliato ad ogni pensione; ma queste sono tecnicalità che sarebbe complicato spiegare.

La sostanza è che il relativo onere ammonta a 21,5 miliardi l’anno, corrispondenti ai differenziali tra gli importi delle pensioni a calcolo e il livello del minimo garantito. Per inciso, sarebbe opportuno tener conto di questo sforzo solidaristico quando si lamenta che la pensione erogata è quella minima, senza considerare l’apporto che viene dalla collettività. Per l’anno 2021, la pensione minima a 515,58 euro. Questo vuol dire, in parole povere, che se il pensionato riceve una pensione inferiore a 6.702,54 euro, che corrisponde a 515,58 euro per 13 mensilità, l’importo della pensione stessa s’incrementa sino ad arrivare appunto a 515,58 euro mensili. Abbiamo già scritto che il lavoratore — nel sistema contributivo — il trattamento minimo deve guadagnarselo, nel senso che non può andare in pensione se al momento in cui matura i restanti requisiti non è in grado di aver maturato, con i suoi versamenti, quell’importo minimo previsto dalla legge (nel caso del pensionamento di vecchiaia un assegno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale ovvero circa 900 euro lordi al mese).

Probabilmente ai sindacati non piace questo approccio e preferiscono che, al maturare dei requisiti, il trattamento di ‘’garanzia’’ sia assicurato comunque. C’è solo un problema: che senso ha affrontare adesso una questione che si porrà in un futuro neanche troppo vicino? Le prime vere pensioni totalmente contributive saranno liquidate verso il 2035, salvo che non si proceda ad un ricalcolo complessivo.

Per ora la stragrande maggioranza dei trattamenti viene liquidato con le regole del calcolo misto, che si portano appresso anche la disciplina dell’integrazione al minimo. Le pensioni erogate esclusivamente in regime contributivo sono circa il 5%.

È senza dubbio meritorio che i sindacati intendano ‘’mettersi avanti con il lavoro’’. Ma non esageriamo con le foglie di fico che cercano di nascondere le ‘’vergogne’’ compiute nell’interesse degli ‘’anziani/giovani’’, pronti ad usufruire, todo modo, dei trattamenti anticipati di anzianità.

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