L’interessante articolo di Milena Gabanelli sul salario minimo pubblicato sul Corriere della sera di lunedì 30 ottobre sollecita qualche precisazione e qualche obiezione.
In primis è necessario fare chiarezza sull’unità di misura che viene definita “salario orario”. Nel sistema di relazioni industriali italiano non esiste la “tariffa oraria” (se non, in qualche modo, nell’assai vituperato istituito dei Voucher). Nei contratti collettivi la retribuzione è sempre individuata su base mensile o, in pochi casi specifici, giornaliera. Con addendi che la proiettano in dimensione annua (13°, 14°, TRF, premi a cadenza annuale).
La paga oraria altro non è che la divisione della retribuzione mensile per le ore lavorative. E qui si danno due possibilità: primo, che la retribuzione mensile considerata sia il minimo tabellare, ossia, per uscire dalle technicalities sindacali, la paga base senza tutte le altre voci. Secondo, che si prenda la retribuzione lorda comprensiva di tutte le voci, compresi i ratei di voci retributive annuali. È evidente che il risultato sarà ben differente nei due casi. Sarebbe quindi opportuno che chi partecipa a questo dibattito dichiarasse esplicitamente a quale unità di misura fa riferimento.
Per maggiore chiarezza se consideriamo la paga oraria come frazione della retribuzione complessiva soltanto 7 CCNL avrebbero i livelli più bassi sotto i 9€ (By Bollettino ADAPT October 9, 2023).
Ma siccome tutto questo dibattito nasce dalla direttiva europea vale la pena notare che l’Ue considera “poveri” i salari inferiori al 60% della mediana delle retribuzioni nazionali. Nel nostro caso ricadono in questa categoria soltanto i livelli minimi di tre salari: vigilanza privata, servizi fiduciari e lavoro domestico. Quanto a quest’ultimo occorre ricordare che si tratta di un contratto particolare, che oltre alla retribuzione prevede vitto e in alcuni casi alloggio.
Questo dato rettifica in modo significativo il quadro desolato richiamato nell’articolo di Milena Gabanelli.
Un’altra questione sulla quale è opportuna una precisazione è quella dei “contratti al ribasso”. Che i CCNL dell’artigianato e in generale della Piccola Impresa presentino tabelle contrattuali inferiori a quelle dell’Industria non dovrebbe essere sorprendente: i Valori Aggiunti sono generalmente ben diversi! E il salario non è, come ricordava Lama, variabile indipendente, ma funzione dei risultati aziendali. Il che è giustamente conclamato allorché si richiama la funzione decisiva della contrattazione di secondo livello che consente di collegare salario e produttività. Così come discutibile è l’affermazione che sia in atto una frammentazione dei CCNL. In realtà esistono contratti monstre, come quello dei metalmeccanici che va dall’automotive all’informatica e, in generale, c’è piuttosto una tendenza ad accorpare contratti assimilabili. Comunque andrebbe tenuto presente che la contrattazione collettiva, così come delineata dalla Costituzione, è liberamente attuata dalle parti: non è dunque cosa sospetta che in settori-nicchia si ravvisi l’esigenza di un contratto specifico. Certo che il sistema corporativo, che individuava ope legis i settori produttivi sui quali calare il contratto collettivo, era assai più comodo per gli osservatori e la statistica!
A proposito, è utile chiarire il caso del contratto della concia, giustamente citato dall’articolo: in realtà nelle aziende nelle quali il contratto “pirata” è stato adottato, esso è stato giudicato legittimo sulla base del referendum indetto in quelle aziende tra i lavoratori.
Ma dove il pur intelligente articolo viene meno è la conclusione, nella quale per inesplicabili ragioni abbraccia la proposta dei Consulenti del Lavoro (base elettorale della Ministra Calderone) ossia “definire i settori, prendere per ciascuno l’accordo più rappresentativo per numero di aziende, dipendenti e V.A., quindi applicare il CCNL ope legis a tutte le aziende del settore”. Inevitabile la domanda: ma questi sono del mestiere?
Questa “semplice” soluzione richiederebbe in primo luogo di certificare la reale consistenza dei Sindacati registrati, in secondo di individuare con un qualche strumento legislativo l’ambito di applicazione dei diversi CCNL, cioè di definire uno per uno, senza eccezioni, i settori di lavoro oggetto di contrattazione collettiva. Forse i Consulenti del Lavoro non ci avevano pensato bene, ma questa non è una cosa che si risolve al Ministero del Lavoro: è cosa che implica riforme costituzionali (che comunque sono necessarie).
Se poi qualcuno a fronte di un percorso così complicato pensasse che tanto vale tagliare in Nodo Gordiano con un bel salario minimo di legge tenga presente che questo, al netto di tutte le buone intenzioni, e scontando tutti i mal di pancia sull’entità, sarebbe una bomba sotto il percorso di riforma costituzionale finalizzato all’erga omnes per i CCNL siglati dai sindacati maggioritari.