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Perché l’intervista di Tria al Fatto Quotidiano non mi ha convinto del tutto

Che cosa ha detto il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, al Fatto Quotidiano e che cosa pensa l'ex sottosegretario al Mef, Gianfranco Polillo

Quando Giovanni Tria, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, dice: “Non è possibile abbassare le tasse, far crescere la spesa e tenere l’Iva ferma” non parla da ministro dell’Economia, ma da professore universitario. Come del resto da lui stesso anticipato, nel corso della stessa intervista. Uno studioso – va subito aggiunto – che si muove all’interno di un’ortodossia che non riesce a cogliere sempre il mondo reale. Specie se quell’articolazione non si presta ad una lettura immediata. Nè si può ammonire: “L’hanno fatto e adesso ne facciamo i conti”. Essendo la situazione di oggi ben diversa da quella di qualche anno fa.

Quel passato, prima crisi della Lehman Brothers, aveva caratteristiche diverse. Erano anni in cui l’economia italiana arrancava, portandosi dietro aziende decotte, che non riuscivano a reggere alla concorrenza internazionale. Bastava vedere i dati relativi all’andamento delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, sui quali lo squilibrio “importazioni – esportazioni” pesava e pesa per circa l’80 per cento. Un profondo rosso. Iniziato quasi in sordina nel 2002 (meno 0,3 per cento del Pil) era andato progressivamente aumentando, fino a raggiungere nel 2010 il 3,4 per cento del Pil. E diminuire solo leggermente (meno 3 per cento del Pil) l’anno successivo. Quello della grande crisi economica e politica.

Il sistema era tenuto in vita soprattutto da un’elargizione del credito, da parte del sistema bancario, poco selettiva. Per evitare possibili fallimenti, che avrebbero coinvolto le banche stesse, si continuavano a finanziare imprese in perdita, che non avevano più alcuna prospettiva. Il tutto reso possibile dalle condizioni favorevoli esistenti su mercati internazionali, comunque liquidi. Situazione durata fin quando la crisi italiana non è esplosa in tutta la sua virulenza. Ed allora con gli spread che avevano raggiunto i 570 punti base. Con le banche che non riuscivano più a finanziarsi sul mercato dell’euribor, la stretta, dura e violenta, divenne inevitabile. Esasperata dalle successive politiche di austerity, il cui salasso fiscale compresse la domanda interna accentuando la crisi di quelle aziende che producevano, soprattutto, per questo mercato.

Negli anni successivi il potenziale produttivo italiano si è ridotto di circa il 25 per cento. Stando almeno ai calcoli più attendibili. Aziende che hanno chiuso i battenti. Incapaci di reggere ad una selezione darwiniana, imposta dai nuovi equilibri del mercato interno ed internazionale. Questi sono “i conti”, per riprendere la frase del ministro, che, purtroppo, nessuno ancora ha fatto. Limitandosi solo a maledire le politiche di austerity, ma non i sottostanti squilibri, tollerati colpevolmente negli anni passati, fino al loro inevitabile deflagrare.

La stretta del 2011 (meno quella successiva), nonostante i costi sociali, fu salutare. Già nel 2012, il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti era stato quasi azzerato: passando dal meno 3 per cento dell’anno precedente allo 0,3. Le aziende più deboli erano state spazzate via dal mercato, liberando risorse che potevano essere recuperate. Ed impiegate in attività più redditizie. Sopratutto in quelle strutture produttive che avevano mercato all’estero. Un successo, seppur non privo di effetti collaterali negativi. Da allora, si è di fronte ad un’inversione, che sembra irreversibile. Il surplus con l’estero è continuamente cresciuto fino a raggiungere, nel 2017, il 3 per cento del Pil e poi stabilizzarsi, secondo le previsioni, al 2,5 per cento.

Sono, forse, questi gli elementi che fanno dire al ministro che “il nostro Paese ha un’economia forte”. Ma questa è solo una parte della verità. L’Italia non è la Germania, con il suo sviluppo industriale diffuso nella maggior parte del suo territorio. Le imprese italiane, che hanno una vocazione alle esportazioni, si concentrano in un area limitata: racchiusa tra Milano, Bologna e Treviso. Il resto del territorio langue per il restringimento delle sue basi produttive e l’acuirsi dei problemi sociali: la disoccupazione soprattutto. C’è quindi una frattura profonda che se non ricomposta rischia di determinare un Paese di serie A ed uno di serie B. I cui effetti politici già si intravedono nella discussione in atto sul problema delle autonomie.

C’è solo da aggiungere che tutto questo non è inevitabile. Il limite dell’ortodossia. Quel surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti si traduce in un eccesso di risparmio che, non trovando forme d’investimento adeguate all’interno, prende la via dell’estero: soprattutto sotto forma di investimenti di portafoglio. Dove i vari broker la fanno da padrone. Si ritorna così ad una vecchia immagine dell’Italia, che fu tipica degli anni ‘60. Quella di un Paese che esporta tutto: uomini, merci e capitali. Che vive nell’indigenza, nonostante l’abbondanza. Sottraendo futuro alle proprie genti. Tema che può anche non rientrare nelle preoccupazioni dell’accademia, ma che è fondamentale per la politica di un Paese.

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