Non potevano passare inosservate le dichiarazioni infuocate di Antonio Patuelli (nella foto), presidente dell’Abi, in occasione di un convegno tenutosi martedì, a proposito del coinvolgimento delle banche nella verifica dei fattori Esg presso le imprese affidate.
La misura è colma, è il messaggio chiaro e forte, che viene dal capo dei banchieri italiani.
Il quale, interrogato sul passo indietro dei giganti Usa del risparmio gestito rispetto ai fattori Esg, ha replicato senza mezze misure che «non è che le banche sono il semaforo di tutto. Siamo soggetti privati. Ci devono essere delle autorità che valutano la sostenibilità delle imprese. Non è che possiamo mettere in moto polizie per andare a vedere se lo scarico industriale dell’azienda che chiede un affidamento è depurato o meno». Ha poi aggiunto che «le banche devono acquisire tutti gli elementi e le documentazioni: per il resto esistono le autorità pubbliche nazionali, regionali e locali. Noi dobbiamo controllare che le imprese abbiano trasparenza fiscale, solidità economica e progettuale e regolarità nei processi Esg. Non possiamo essere noi certificatori Esg”.
Parole che sono auto-esplicative e che descrivono l’enorme disagio che cova tra le banche e tra queste ultime e le imprese a proposito del compito, che la Bce ha impropriamente ribaltato sulle banche, di introdurre anche valutazioni circa la sostenibilità (ambientale, sociale e di governo societario) nel processo di concessione di una linea di credito.
Un mondo da anni abituato a leggere i conti delle imprese, i loro flussi di cassa, le loro prospettive di reddito, la loro solidità patrimoniale, all’improvviso, si è ritrovato catapultato a valutare fenomeni incerti sia nella definizione che nella misurabilità. Con i frustranti risultati che emergono dalle parole di Patuelli.
Le cui parole sono state colte al balzo da Standard Ethics, importante società che si occupa di rating di sostenibilità, che (Cicero pro domo sua) ha ovviamente ritenuto le parole di Patuelli un importante assist per lo sviluppo della propria attività. Senonché, tale interessato intervento si scontra e anzi aggrava il problema principale di tutta la reportistica Esg e cioè quello dell’appesantimento burocratico a carico delle imprese. Inoltre non risolve nemmeno il problema della legittimità di tali rating ai fini della gestione del credito.
Come ha detto Patuelli, l’ordinamento giuridico è già fitto di divieti e sanzioni sui temi Esg. Le imprese che non li rispettano rischiano anche sanzioni penali e quindi il presidio c’è già ed è la legge e non c’è bisogno di ulteriori accertamenti e rating di sorta. È infatti evidente che, a prescindere che siano le banche o le società di rating Esg a doversi occupare della materia, il problema burocratico e organizzativo per le imprese resta e può solo aggravarsi.
Nel frattempo, in Europa hanno già rotto gli indugi in materia e si sta preparando una secca retromarcia sulla reportistica Esg. Infatti, dopo che a dicembre la Germania aveva ufficialmente chiesto rinvii (direttiva CSRD) e cancellazioni (direttiva CSDDD), ieri è arrivata pure la Francia, il cui governo ha reso noto che sta presentando una serie di richieste per porre un freno al report Esg e ridurre le imprese interessate nella Ue da circa 50.000 a circa 7.000. «Così com’è è un inferno», sono stante le parole con cui la portavoce del governo ha definito gli adempimenti a carico delle imprese a cui deve essere posto un freno.
In Italia, il risveglio è più lento ma è per fortuna cominciato e le parole di Patuelli sono un segnale inequivocabile.