“Ho l’impressione che il governo si prepari a scaricare le responsabilità su banche e imprese”.
L’impressione è stata esternata oggi sul Corriere della Sera dal presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, mentre peraltro la confederazione degli industriali deve fronteggiare opinioni diverse anche tra le grandi imprese sul ruolo dello Stato nell’economia (ci sono diversità di impostazioni con l’associazione Assonime, qui l’approfondimento di Start Magazine).
Dunque le banche stanno facendo appieno il lavoro richieste dalle aziende? O sono frenate? E da che cosa? Dalle procedure previste dal decreto Liquidità o da altro?
Chi è andato al cuore della questione è stato oggi il segretario generale della Fabi, il maggiore sindacato dei bancari.
“Qualche banca ha rallentato perché sta pretendendo dal governo uno scudo penale su argomenti specifici – ha detto senza tanti giri di parole il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni – perché corrono il rischio di essere accusati di reati, in concorso, come la bancarotta preferenziale o la bancarotta semplice delle imprese a cui concedono i prestiti garantiti dallo Stato: l’aiuto a imprese di cui già si conosce la difficoltà economica puo’ essere interpretato come il tentativo di posticipare il dissesto e poi il fallimento”.
Dunque, ha aggiunto Sileoni intervistato durante la trasmissione Storie italiane su Rai Uno, “il problema nasce da un decreto farraginoso che sostanzialmente ha sovrapposto delle norme”.
Per queste ragioni nei giorni scorsi l’Abi – l’associazione delle banche presieduta da Antonio Patuelli – ha chiesto tutela penale per banche per velocizzare erogazione prestiti garantiti. E in attesa dello scudo penale, le banche fanno una occhiuta valutazione della situazione economica e patrimoniale delle imprese che chiedono i prestiti con le garanzie previste dal decreto Liquidità.
Il 22 aprile, nel corso di un’audizione parlamentare, il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, non a caso ha sottolineato che in particolare per ridurre i tempi delle istruttorie, nei casi diversi dal finanziamento fino a 25.000 euro previsto dal decreto del Governo (in quel caso è previsto l’intervento di Sace, ndr), “occorre tutelare sotto il profilo penale l’attività di erogazione di credito durante la crisi. Occorre, in altri termini, evitare che sulle banche e sugli esponenti siano trasferiti rischi che non possono in alcun caso essere riconosciuti come loro propri laddove le misure di sostegno offerte alle imprese in attuazione dei provvedimenti normativi non sortissero gli sperati effetti e le imprese cadessero in stato di insolvenza con possibili conseguenze rispetto alle procedure fallimentari”.
Insomma, un implicito riconoscimento dei motivi per cui gli istituti di credito sovente fanno melina.
Che cosa temono?
I prestiti garantiti espongono imprese e banche a rischi penali. Banca e consigli di amministrazione delle imprese rischiano l’accusa di bancarotta se viene erogato un prestito quando sia gli indicatori sia lo stato di crisi suggerirebbero di non concederlo.
Se l’impresa non rimborsa il finanziamento, l’istituto di credito si rifà sullo Stato grazie alla garanzia statale. Il prestito garantito è un finanziamento privilegiato da rimborsare prioritariamente rispetto ad altri debiti.
Ma banche e imprese quando arriva la dichiarazione di fallimento rischiano di rispondere del reato di bancarotta preferenziale in base alla legge fallimentare (l’articolo 216 prevede una reclusione da 1 a 5 anni).