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Fed Bce

Perché le banche centrali manterranno tassi bassissimi

L’analisi di Congiuntura Ref La bassa inflazione si è tradotta anche in una riduzione delle aspettative d’inflazione. Anche le banche centrali nelle loro previsioni evidenziano una dinamica dei prezzi che non si riporta in tempi brevi in linea con gli obiettivi. Ad esempio la Fed, nell’ultimo scenario formulato a settembre, indicava una dinamica dei prezzi a…

La bassa inflazione si è tradotta anche in una riduzione delle aspettative d’inflazione. Anche le banche centrali nelle loro previsioni evidenziano una dinamica dei prezzi che non si riporta in tempi brevi in linea con gli obiettivi. Ad esempio la Fed, nell’ultimo scenario formulato a settembre, indicava una dinamica dei prezzi a fine 2020 dell’1.2 per cento, in risalita all’1.7 a fine 2021, e al 2 per cento solamente a fine 2023. La Bce prevede un’inflazione media allo 0.3 per cento quest’anno, all’1 per cento nel 2021, all’1.3 nel 2022. Inoltre, va anche ricordato che nelle banche centrali vi è consapevolezza del fatto che oramai da diversi anni gli errori di previsione sono stati quasi sempre in eccesso (al pari naturalmente di quanto accaduto per gli altri previsori).

Questo sta avendo da un lato conseguenze sullo schema analitico di riferimento, (ad esempio come visto in relazione alla minore enfasi che verrà posta dalla Fed sugli indicatori di sottoutilizzo del fattore lavoro) ma anche rispetto al rilievo assunto da alcuni scenari di rischio, cui in passato veniva assegnata una probabilità limitata. Inizia soprattutto a maturare la consapevolezza che le maggiori economie possano lentamente scivolare verso una fase di deflazione. Questo pone delle sfide importanti alle banche centrali. Difatti, se ciò dovesse accadere, soprattutto in un quadro di economia ancora in difficoltà, data l’incertezza sui tempi di superamento dell’epidemia, occorrerebbe modificare nuovamente l’impostazione della politica monetaria, spostandosi sul terreno dei tassi d’interesse negativi, una strada molto incerta, sulla quale vi sono solo alcune prime esperienze.

Nelle parole della Fed: “The Committee judges that the level of the federal funds rate consistent with maximum employment and price stability over the longer run has declined relative to its historical average. Therefore, the federal funds rate is likely to be constrained by its effective lower bound more frequently than in the past. Owing in part to the proximity of interest rates to the effective lower bound, the Committee judges that downward risks to employment and inflation have increased”. L’importanza di contrastare i rischi di deflazione emerge dai recenti cambiamenti emersi al riguardo nella strategia della Federal Reserve che ha parlato esplicitamente di obiettivo d’inflazione “simmetrico”, e cioè del fatto che un obiettivo d’inflazione al 2 per cento può implicare che, dopo una fase d’inflazione a lungo inferiore a tale valore, la dinamica dei prezzi possa situarsi per un certo tempo al di sopra.

In un certo senso, la Fed dichiara che, proprio allo scopo di ridurre i rischi di caduta in una fase di deflazione, è pronta a forzare la mano, anche se ciò dovesse poi spingere a un eccesso di espansione monetaria, portando la dinamica dei prezzi per un certo periodo al di sopra dell’obiettivo.

Questo cambiamento modifica la politica monetaria in due sensi: primo, evitando di stringere la politica monetaria in modo preventivo, rispetto alla dinamica dei prezzi, quando la disoccupazione dovesse scendere sotto livelli un tempo considerati accelerativi dei salari; secondo, inserendo nella formazione delle attese inflazionistiche la possibilità che la dinamica dei prezzi possa rimanere durevolmente sopra il 2 per cento senza essere contrastata da restrizioni monetarie. Si tratta di pura sperimentazione, anche sul piano comunicativo, con evidenti divergenze di opinioni e tentativi di non disancorare le attese inflazionistiche, né verso il basso né verso l’alto.

Il contesto difficile all’interno del quale operano le banche centrali porta dunque a ritenere che i tassi d’interesse resteranno di fatto prossimi a zero ancora per molti anni. A seguito di tali attese, i tassi d’interesse a lungo termine sono crollati. Sulle scadenze a dieci anni quelli tedeschi sono da tempo in territorio negativo, quelli Usa si sono portati ben sotto l’1 per cento. L’azione delle banche centrali ha anche sortito l’effetto di sostenere i mercati azionari nel corso della crisi. Le borse hanno beneficiato del crollo dei tassi a lunga, ma hanno anche trovato un supporto nelle aspettative positive sui titoli tecnologici, in parte spiegabile alla luce dell’accelerazione della trasformazione della struttura produttiva innescata dalla stessa epidemia, ad esempio a seguito dell’accelerazione di fenomeni come la diffusione dello smartworking, o delle vendite on-line.

Negli ultimi mesi anche le attese sull’andamento dei profitti hanno iniziato a migliorare, in linea con i segnali di recupero della congiuntura rispetto ai minimi delle settimane del lockdown. Dopo il rally osservato sino a inizio settembre, le borse hanno perso in parte smalto, alternando fasi negative e positive, sulla scorta dei timori innescati dalla nuova fase di aumento dei contagi e dell’incertezza legata all’approssimarsi delle elezioni Usa. Il cambiamento nella strategia della Fed ha anche sortito l’effetto di indebolire il cambio del dollaro nei confronti dell’euro. Sulla valuta Usa hanno pesato anche altri fattori, come l’incertezza politica legata all’imminenza delle elezioni presidenziali. D’altra parte, l’indebolimento del dollaro è un aspetto positivo soprattutto per le economie emergenti; di fatto, la liquidità immessa sui mercati dalle principali banche centrali inizia ad arrivare anche a questi paesi, che invece erano stati colpiti da importanti deflussi nel corso della prima fase della pandemia.

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