Nella lunga esposizione, in Parlamento, del Presidente del consiglio, Giuseppe Conte — circa un’ora intera dedicata a ricostruire i diversi passaggi che hanno portato al “semi” varo del Mes — è difficile stabilire torti e ragioni. Misurare, con il bilancino, inadempienze governative e disattenzioni dell’intero Parlamento. Fake news o scarsa attitudine nel dedicarsi allo studio di dossier impegnativi. E che il nuovo trattato sul Fondo salva Stati appartenga a quest’ultima categoria, forse, solo oggi si comincia ad avere una certa consapevolezza.
Abbiamo sotto gli occhi lo stenografico del 19 giugno scorso. Il giorno del grande equivoco, in cui fu votata la risoluzione, che negava il via libera alla sua approvazione. Anche in questo caso una formulazione che recava margini di ambiguità. Al punto da consentire interpretazioni del tutto opposte. Ebbene: non si può certo dire che in quell’intervento, da parte del Presidente del consiglio, fosse dato all’argomento quella centralità che meritava.
Al contrario la sua esposizione riguardò l’universo mondo: dai compiti della nuova Commissione, alle aspirazioni italiane circa l’attribuzione di un portafoglio di peso; dai temi dell’immigrazione, ai problemi legati alla disoccupazione; dal budget dell’Eurozona, allo sviluppo degli investimenti; dalla Brexit, alla cyber security. Solo per citarne alcuni, non trascurando il clima, i rapporti con la Russia, il contenzioso turco cipriota sulla perforazione dei pozzi petroliferi. E via dicendo. Altro che centralità di quel problema che, da lì a qualche mese, sarebbe esploso in modo virulento. Fino a mettere in dubbio l’onorabilità dei diversi duellanti.
Il dibattito parlamentare non ha fatto altro che confermare lo smarrimento di una classe dirigente che scorge l’imminenza del pericolo solo a pochi passi dal precipizio. Colpa dei singoli ministri o dei gruppi parlamentari? Difficile, ma anche inutile, rispondere. Del resto finché la politica sarà soprattutto comunicazione, nelle forme contratte che oggi conosciamo, ogni altra possibile visione finisce in quel grande buco nero, che ottenebra la mente. Salvo riemergere all’improvviso, quando ormai c’è poco o nulla da fare.
Questa è la conclusione più disarmante. Tra qualche giorno il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, affronterà i suoi colleghi nella riunione dell’Eurogruppo. Dovrà arrampicarsi sugli specchi, per evitare la messa in mora dell’Italia. Si spera che anche altre delegazioni possano unirsi, nel manifestare perplessità, che lo stesso caos italiano possa aver contribuito a far lievitare. Fosse così sarebbe una specie di miracolo. La ragione che risorge da un mondo in confusione. La politica che, in qualche modo, si riappropria di un terreno abbandonato alle scorrerie di tecnici, guidati dagli interessi più forti del Continente.
Ma non fosse questa la realtà tutti i timori della vigilia sarebbero confermati, con gli spread sui titoli italiani che, in poche ore, crescono di quasi il 2 per cento, sfiorando i 180 punti base, proprio nel momento in cui il Presidente del consiglio prendeva la parola. La minaccia vera che attanaglia il cuore dell’Italia e che è — Mes o non Mes —il pericolo vero da evitare. Comunque sia, quello del Parlamento non poteva che essere una seduta interlocutoria. Tutto è rinviato al 10 dicembre, quando il Presidente del consiglio dovrà essere delegato, dallo stesso Parlamento, ad esprimere la posizione definitiva del Paese. Che si spera non sia quella del “prendere o lasciare”. Ma per evitare che questo avvenga, è necessario il lungo lavoro degli sherpa. Convincere i nostri riottosi partner a concedere il tempo necessario, indispensabile ai fini di una decisione consapevole.
Da quel che si è potuto vedere, sembra essere stato questo il punto di caduta dell’intero dibattito parlamentare. Al di là delle inevitabili polemiche e reciproche accuse. Un occhio alla pura logica elettoralistica; l’altro segnato da una preoccupazione sincera. Un ordigno tra le mani, che potrebbe esplodere, a prescindere dalle istruzioni teoriche, che ne indicano le modalità d’uso. Che gli altri partner europei ne siano in qualche modo consapevoli. Accrescere le difficoltà di un Paese, grande come l’Italia, non conviene a nessuno. Trascinarlo in mezzo al guado, mentre le eventuali difese, che scatteranno solo nel 2023, sono ancora da approntare, comporterebbe rischi sistemici che nessuno è in grado di affrontare.
Se la tregua vi sarà, è tuttavia indispensabile non rimanere con le mani in mano. Pensare solo a far passare “la nuttata”, brindando allo scampato politico per le sorti del Governo. È necessario muoversi. Pensare ad una strategia credibile di progressivo abbattimento del debito, superando i vecchi tentativi fallimentari del passato. Lo ricordava Carlo Cottarelli, nel suo ultimo intervento su La stampa. Quella lucida elencazione dei fallimenti che sono antecedenti anche alla nascita dell’euro. Ma che, proprio per questo, richiedono un supplemento di indagine.
Dalla fine degli anni ‘90 alla guida del Paese si sono succeduti uomini tra loro profondamente diversi. Con culture, esperienze personali e background spesso opposti. Carlo Azeglio Ciampi e Silvio Berlusconi: solo per fare due nomi. Seguendo regole, che sembravano inattaccabili, dal punto di vista teorico, i risultati sono, ancora oggi, sotto gli occhi di tutti. L’Italia è ancora costretta a gestire il terzo debito più alto del Mondo. Il livello più alto, in termini di Pil, della sua lunga storia nazionale: dal 1861 in poi. Circostanze che dovrebbero sollevare più di un dubbio. Ma non sarà che quelle ricette erano sbagliate?