La spirale di risposte e controrisposte tariffarie tra Washington e Pechino si sta avvitando sempre di più. Circa tre mesi fa i dazi tra Stati Uniti e Cina erano al 10%. Oggi, come annunciato dal presidente Donald Trump nelle scorse ore, quelli statunitensi raggiungeranno la soglia del 125%. Una mossa che segue l’aumento di quelli sui prodotti americani deciso dalle autorità cinesi, dal 34 all’84%. Che a sua volta era motivata da un precedente rialzo dei dazi americani al 104%. Insomma, rialzo dopo rialzo la guerra commerciale, almeno a colpi di minacce, è già in corso.
LA REAZIONE E LA STRATEGIA DELLA CINA
L’esenzione per tre mesi per decine di paesi non ha riguardato la Cina, colpevole agli occhi di Washington di prendere contromisure. D’altronde la promessa di “combattere fino alla fine” sul tema dazi è stata rilanciata ufficialmente da Pechino, che non ha intenzione di cedere a quelle che considera “pratiche intimidatorie” degli Stati Uniti. Anche perché, come sottolinea Giuliano Noci, prorettore del Polo cinese del Politecnico di Milano sul Sole 24 Ore, “il problema è che la Cina non può non reagire alle intemerate di The Donald. Non si tratta solo di export o crescita: è un tema di legittimazione politica”. “Il Partito comunista cinese non va alle urne: ha bisogno di Pil, di essere riconosciuto come forte e credibile dalla sua popolazione”, continua Noci.
Una prospettiva simile a quella di alcuni analisti cinesi, il cui commento è riportato dal quotidiano di Singapore The Straits Times: “Se la Cina si siede e parla subito dopo essere stata colpita, è un segno di debolezza e gli Stati Uniti la mangeranno viva al tavolo delle trattative”. “La strategia della Cina è: escalation per una de escalation”. Un’indiscrezione di Bloomberg ha svelato che intanto i leader dell’amministrazione cinese si incontreranno in queste ore per discutere misure di stimolo economico interno sulla scia delle tensioni commerciali.
LA SVALUTAZIONE DELLO YUAN
Oltre a reagire con i dazi, Pechino si sta muovendo in altro modo. Per esempio, agevolando la svalutazione dello yuan, oggi scivolato ai minimi dal 2007 sul dollaro, a quota 7,3518 prima di recuperare leggermente dopo la notizia del vertice della leadership di Pechino. Di fatto, la Banca centrale cinese sta abbassando da sei giorni consecutivi il suo tasso di riferimento, svalutando la propria moneta per sostenere le esportazioni.
Un’iniziativa che va contro gli auspici di Scott Bessent. Il segretario al Tesoro statunitense, infatti, aveva avvertito Pechino: “Quello che non dovrebbe fare è cercare di svalutare per uscire da questa situazione”. Bessent ha poi dichiarato: “È un peccato che i cinesi non vogliano venire a negoziare, perché sono i peggiori trasgressori del sistema commerciale internazionale”.
L’EUROPA CONTESA E I PUNTI DI FORZA DELLA CINA
Secondo lo stesso Bessent, i prossimi passi degli Usa prevedono negoziati con i vari alleati per raggiungere accordi commerciali specifici in questi 90 giorni di pausa. Obiettivo: gettare le fondamenta per stabilire un approccio comune nei confronti di Pechino, in modo da “affrontare la Cina come gruppo”. Il segretario al Tesoro Usa ha poi avvertito in maniera emblematica l’Unione europea, sconsigliandole di scivolare verso la Cina: “Sarebbe come tagliarsi la gola”.
La Cina, infatti, guarda al Vecchio Continente, accogliendo con soddisfazione alcune aperture politiche europee. Il premier spagnolo Pedro Sanchez è a Pechino per discutere di questioni commerciali. Stesso motivo della telefonata tra la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il premier cinese Li Qianq, così come del video-colloquio tra il commissario al Commercio Ue Maros Sefcovic e il ministro cinese Wang Wentao. Il dialogo è più che aperto.
E non c’è solo l’Europa. Il presidente Xi Jinping ha infatti invitato la Cina a costruire “un futuro condiviso con i paesi vicini”, per stringere un legame ancora più forte, integrando catene di approvvigionamento e industriali. Il recente colloquio trilaterale con Corea del Sud e Giappone è solo un esempio. Ancor più visto che molti paesi del Sud-est asiatico erano stati colpiti duramente dalle promesse iniziali di dazi da Trump.
I TIMORI USA E LA QUESTIONE TITOLI DI STATO
La Casa Bianca comunque continua a fare la voce grossa con Pechino. Calcolando però anche i potenziali svantaggi e punti deboli. In una guerra commerciale pura, infatti, Pechino potrebbe contare su alcuni elementi a suo favore. Come rimarcato dal Guardian, “gli Stati Uniti dipendono molto di più dalle importazioni cinesi di quanto la Cina non dipenda dagli Stati Uniti”. E “molti beni provenienti dalla Cina non potranno essere sostituiti rapidamente, con un conseguente aumento dei prezzi al consumo negli Usa” che potrebbe durare anni, secondo la Cnn.
E poi c’è la questione del Tesoro. Uno dei motivi dietro il passo indietro di Trump sarebbe la reazione “nervosa” del mercato dei titoli di Stato statunitensi. Considerati tradizionalmente asset sicuri per investitori di tutto il mondo, dopo la promessa dei dazi hanno iniziato ad essere venduti, il rendimento dei titoli decennali ha raggiunto il 4,5% e anche quelli a più lunga scadenza sono saliti.
E la Cina ha una leva strategica importante visto che è il secondo detentore straniero di debito Usa, dietro solo al Giappone. Pechino possiede circa 760 miliardi di dollari in Treasury (il 2,1% del totale), simile alla quota del Regno Unito, mentre Tokyo ne ha 1,08 trilioni di dollari. Certo, nulla a che vedere con i maggiori detentori di debito pubblico, ovvero investitori e pensionati americani con 28,9 trilioni di dollari. Lo scenario in cui la Cina inizi a vendere le obbligazioni statunitensi – gettando nel caos i mercati – al momento è inverosimile. Sia per le conseguenze generali sia per l’impatto che avrebbe su di essa. Ma il timore che abbia iniziato a liquidarne una parte potrebbe essere reale. D’altronde in guerra non si può escludere nulla.