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Smart Working

Perché in Germania non eccita molto l’home office

Chi e come sta ricorrendo in Germania allo smart working. L'articolo di Pierluigi Mennitti da Berlino

 

Nuova frontiera del lavoro, rivoluzione produttiva, nuova normalità? Non in Germania. “Niente smart working, siamo tedeschi”, si potrebbe parafrasare, o meglio niente home office, giacché questo è il nome che si è imposto in Germania per indicare il lavoro a distanza. La pandemia avrebbe dovuto accelerarne la diffusione, ma in realtà gli imprenditori tedeschi non lo hanno mai amato e, nonostante gli “obblighi suggeriti” dal mondo politico (nel senso che in concomitanza con le ondate di covid il governo lo ha imposto senza però prevedere eventuali sanzioni), lo hanno utilizzato in misura minore rispetto alle potenzialità. E appena hanno potuto, hanno richiamato i lavoratori in fabbrica o in ufficio.

È andata un po’ meglio nella pubblica amministrazione, ma con risultati non sempre incoraggianti sul piano dell’efficienza, come potrebbe testimoniare qualsiasi cittadino che abbia avuto a che fare con la burocrazia in questi mesi. Fatto sta che secondo i dati del consueto sondaggio mensile condotto dall’istituto economico Ifo di Monaco tra gli imprenditori, in aprile la quota di lavoratori in home office è diminuita rispetto a marzo, passando dal 31,7 al 30,8%.

La diminuzione è più significativa proprio perché dall’inizio di aprile gli appelli “obbligatori” del governo si erano fatti più insistenti, in concomitanza con le misure restrittive adottate per contrastare la terza ondata del covid. Ma mentre ristoratori, commercianti e mondo delle arti e della cultura (per fare riferimento a categorie particolarmente colpite dai lockdown) hanno dovuto di nuovo fare la loro parte, i manager delle aziende non ne hanno voluto sapere e hanno avviato il rientro di coloro che a marzo avevano usufruito della possibilità di lavorare a distanza.

La percentuale è ancora lievemente superiore al 30,3 del mese di febbraio, quando la fine della seconda ondata aveva suscitato la speranza di una graduale ripresa, poi affossata dal combinato delle varianti del virus e dello stentato avvio della campagna di vaccinazione. E tuttavia, come ha spiegato l’esperto dell’Ifo Jean-Victor Alipour, “l’obbligo più severo di consentire l’home office durante la pandemia non sembra sortire effetti”.

È vero che, dato il tira e molla fra Stato e Länder, il rafforzamento della misura è entrato in vigore solo nelle ultime settimane di aprile, ma la tendenza appare chiara e indica un richiamo in azienda dei lavoratori tenuti in home office. La disposizione del governo in vigore da gennaio (e appunto rafforzata in aprile) obbliga legalmente i dipendenti a lavorare da casa quando il datore di lavoro lo dispone, salvo alcune eccezioni legate a impossibilità per spazi domestici troppo piccoli o problemi di gestione familiare. A loro volta i datori di lavoro dovrebbero consentire ai propri dipendenti di lavorare da casa quando non vi siano “ragioni operative convincenti”. In questi ultimi mesi dal governo e dal Robert Koch Institut si sono susseguiti continui appelli ai cittadini a lavorare il più possibile da casa.

Il ritorno in azienda sta interessando praticamente tutti i settori produttivi, aggiungono i ricercatori dell’Ifo, con una unica inattesa eccezione: il settore edile. Attualmente risultano in home office il 22,4% dei dipendenti dell’industria (- 1% rispetto a marzo), il 41,1% dei servizi (- 1,5%), il 18,9% del commercio (- 0,1%) e l’11,3% delle costruzioni (+ 3%). Secondo le stime dell’Ifo, il 56% dei dipendenti di tutti i settori potrebbe svolgere gran parte del proprio lavoro in remoto: una percentuale mai raggiunta, neppure nelle fasi più acute della pandemia.

L’istituto bavarese offre qualche ulteriore numero che aiuta a definire la geografia dell’home office in Germania. Il settore che più ne ha approfittato – e che probabilmente continuerà a farlo anche dopo la pandemia – è quello dei servizi legati alle tecnologie dell’informazione (il 79,8% di fronte a un potenziale dell’87,4%). Nell’industria, il record spetta al settore farmaceutico (39,4% di fronte a un potenziale del 62,6), mentre dall’altro capo della forbice ci sono produzione e lavorazione di metalli, produzione di alimenti per animali, nonché legno e vimini: per questi ultimi il lavoro remoto non rappresenta un’opzione.

Tuttavia il governo non si mostra deluso. C’è spazio per ampliare questa nuova forma di lavoro, fa sapere il ministro preposto Hubertus Heil (Spd), che lo scorso anno si è prodigato per varare una legge apposita poi annacquata dai colleghi di coalizione (soprattutto cristiano-democratici e sociali): i numeri non sono affatto bassi, specie se confrontati con quelli di analoghi Paesi europei come Francia e Italia.

Due ostacoli si frapporranno però a un pieno sviluppo dell’home office nel prossimo futuro, dopo che la fine della pandemia scatenerà inizialmente una naturale voglia di ritorno sui posti di lavoro alla ricerca della socialità perduta: la cultura del management, specie quello della piccola e media industria, in Germania tradizionalmente restio a non avere sott’occhio i propri addetti, e il ritardo dell’infrastruttura digitale, un problema che il Paese si trascina dietro da anni a dispetto della sua forza industriale. Per il secondo ostacolo potrebbero essere sufficienti gli aiuti del Recovery Fund. Più ostica da superare sembra invece la “cultura della presenza” che alberga nei piani alti delle aziende.

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