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Perché il lavoro non standard riguarda più le donne che gli uomini

Cosa cosa emerge dai dati sul lavoro non standard (caratterizzati da una ridotta continuità nel tempo e/o da una bassa intensità lavorativa) pubblicati dall'Istat. L'intervento di Alessandra Servidori

L’Istat ha pubblicato i dati sul lavoro non standard: quando si parla di lavoro “non-standard” ci si riferisce a rapporti caratterizzati da una ridotta continuità nel tempo e/o da una bassa intensità lavorativa. In altre parole, contratti a termine e part time involontario. E ad essere coinvolte in queste modalità lavorative – questo ci dicono i dati del 2022 –  sono soprattutto le donne: il 27,7% delle occupate sono lavoratrici non-standard contro il 16,2% degli uomini.

La quota di lavoratori non-standard raggiunge il 45,7% tra le donne giovani (a fronte del 33,9% dei coetanei), il 36,1% tra le residenti nel Mezzogiorno (22,1% gli uomini della stessa ripartizione), il 36,4% tra le donne che hanno al massimo la licenza media (18,6% gli uomini con lo stesso livello di istruzione) e arriva al 40,7% tra le straniere (28,3% tra gli stranieri maschi).

Lo svantaggio femminile si evince anche dalle retribuzioni: i dati del 2019 mostrano che in media le donne percepiscono una retribuzione oraria dell’11% inferiore a quella degli uomini, con differenze territoriali che variano tra il -13,8% nel Nord-ovest e il -8,1% nel Sud. La probabilità di avere un’occupazione non standard è molto debole.

I risultati che emergono – in linea con le conclusioni di molti studi sull’argomento – mostrano che la probabilità di occupazione non standard aumenta per le coorti più giovani e per chi vive in determinate aree geografiche, Centro e soprattutto Sud, in particolare per gli uomini. Questa probabilità si riduce se aumenta il titolo di studio e cresce invece in presenza di famiglie con figli, in particolare per le donne.

In un’ottica di genere, gli effetti del lavoro non standard sui redditi da lavoro dipendente alimenta delle teorie curiose: una delle quali è che il lavoro non standard dovrebbe essere pagato con un salario più elevato, per compensare il lavoratore per il maggior rischio di disoccupazione e l’incertezza delle prospettive lavorative. Secondo altra teoria, i lavoratori non standard dovrebbero essere remunerati di meno, a causa dell’elevato turnover cui sono sottoposti.

È opinione di chi scrive che svolgere un lavoro non standard comporta, a parità di altre condizioni, una riduzione del reddito medio annuo abbastanza importante e non ci sono evidenze della teoria dei differenziali salariali che possano compensare lo svantaggio di avere un lavoro non standard.

Nel panorama generale l’Italia ha mostrato, a livello aggregato, un incremento dell’occupazione non standard. Le riforme del mercato del lavoro che si sono succedute negli anni hanno accresciuto la flessibilità in entrata attraverso nuove tipologie contrattuali, ma non ha favorito l’ingresso e la permanenza sul mercato del lavoro delle donne. I contratti di lavoro temporanei sembrano essere utilizzati dalle imprese solo come fattore produttivo più economico, grazie alle notevoli differenze di tutele tra contratti a tempo determinato e indeterminato, e non come strumento per aggiustare il processo produttivo ai cambiamenti delle condizioni economiche o come modalità per selezionare le risorse umane migliori.

La Commissione europea ha individuato alcune determinanti delle differenze di genere che ancora persistono nell’Ue, in particolare nel lavoro flessibile e part-time: quando un lavoratore/lavoratrice sceglie o ha bisogno di conciliare lavoro e famiglia tramite un lavoro part-time, viene comunque pagato di meno, perché sul mercato non sono disponibili lavori a tempo parziale qualificati. Tale elemento contribuisce ad amplificare le differenze di genere anche nelle retribuzioni, visto che il take-up rate femminile nelle posizioni di lavoro non standard è più elevato rispetto a quello maschile; nei paesi Ue il lavoro part-time o flessibile è spesso involontario: questa soluzione rappresenta, infatti, una scelta obbligata per l’assenza di lavori full-time e/o l’esigenza di tempo da dedicare alla cura dei familiari. In questi termini si amplifica la trappola della sotto-occupazione; il part-time rappresenta un ostacolo importante al raggiungimento del potenziale occupazionale femminile, l’Ue non riesce ad utilizzare pienamente la riserva di lavoro offerta dalle donne, con un conseguente effetto negativo sul livello del Pil, la scelta di ridurre la propria partecipazione al mercato del lavoro (tramite un impiego flessibile o part-time) da parte di un adulto è spesso effettuata nell’ambito della famiglia per svolgere compiti di cura e operata da chi percepisce il secondo stipendio, di solito la donna.

Questo implica, insieme ad altri elementi, che il take-up rate femminile in questi tipi di lavori sia più elevato rispetto a quello maschile; svolgere un lavoro part-time ha conseguenze negative sulle possibilità di formazione e di carriera; vero è che le innovazioni tecnologiche consentono di svolgere lavori in forma flessibile, a vantaggio sia dei lavoratori che dei datori di lavoro.

Secondo la Commissione Ue chi usufruisce del part-time, più spesso le donne, non ha piena consapevolezza degli effetti di lungo periodo che questo comporta su retribuzione, pensioni e possibilità di carriera e quindi non basa le proprie decisioni su un’informazione completa. In alcuni casi, oltre a questi elementi, una storia di lavoro part-time ha mostrato effetti anche sulla successiva occupabilità delle persone, specie se uomini. Questi elementi possono indurre le persone ad abbandonare il mercato del lavoro o a scegliere lavori con retribuzioni più basse incidendo negativamente, a livello macro, sulla crescita complessiva, e, visto che il lavoro flessibile è particolarmente diffuso tra le donne, aumentano il gap di genere nei salari.

Possono essere individuati elementi positivi e negativi legati al lavoro flessibile o part-time, alcuni dei quali hanno anche una rilevanza di genere.

Gli elementi positivi si possono riferire al lato della domanda di lavoro (imprese) e al lato dell’offerta (lavoratori/lavoratrici) e, per alcuni aspetti, interessano anche una dimensione sociale. Il lavoro non standard può consentire, ad esempio, alle imprese di rimanere competitive anche in tempi di crisi economica, mantenendo all’interno lavoratori qualificati che, altrimenti, dovrebbero essere licenziati. Questo può anche favorire il trasferimento delle competenze tra lavoratori, senza che vada perso l’investimento in formazione del datore di lavoro. Si parla in questo caso di flessibilità employer-oriented, introdotta per consentire alle risorse umane presenti in un’azienda di essere in linea con i tempi richiesti dal mercato, che sono influenzati dalla domanda da parte dei consumatori, dai tempi di utilizzo dei macchinari, dall’impiego ottimale del capitale ecc. Il lavoro flessibile o part-time può avere anche altri effetti negativi: sull’indipendenza economica, sulla stabilità finanziaria e sulle prospettive di carriera dei lavoratori. I lavoratori/lavoratrici part time, ad esempio, sono pagati di meno rispetto ai corrispondenti full-time (implicando fenomeni di discriminazione salariale). In molti stati membri dell’Ue si assiste a fenomeni di segregazione: sono le donne che hanno più probabilità di scegliere un lavoro con orario inferiore rispetto a quello normale (part-time), mentre gli uomini tendono a scegliere altre forme di lavoro flessibile (da casa o con ore di lavoro accorpate).

La scelta del part-time può avere ripercussioni di lungo periodo sul sentiero lavorativo, specie delle donne, in termini di carriera e retribuzioni, anche perché lo stesso si concentra prevalentemente in settori con bassi salari e poco qualificati. Nel medio periodo il lavoro part time e flessibile può influenzare negativamente l’accesso ai requisiti necessari per usufruire di forme di protezione sociale (ad esempio i sussidi alla disoccupazione).

Il lavoro part-time, infine, riduce le possibilità di formazione e di carriera e può condizionare negativamente la propensione degli individui a cambiare lavoro, aumentandone il tasso di permanenza nello stesso posto. Il dato femminile è interessante soprattutto se confrontato con quello maschile, nel quale l’incidenza del lavoro non standard è molto più contenuta.

I dati a livello aggregato sembrano mostrare uno spiazzamento dell’occupazione maschile in favore di quella femminile, in particolare non-standard.

La questione dovrebbe essere affrontata in materia contrattuale con agevolazioni contributive sia per le imprese che per i lavoratori/  lavoratrici che adottano questa tipologia  in un sistema a turn over di tutto l’organico aziendale nell’organizzazione del lavoro complessiva sia nel lavoro pubblico che privato per implementare la flessibilità  e la produttività in particolari momenti in cui è necessario rispondere a particolari esigenze di produzione.

 

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